Difende l’onore egiziano il presidente Al-Sisi che non può vedere i suoi concittadini, in genere lavoratori emigrati per fame, inginocchiati e sgozzati secondo il macabro copione dei macellai dell’Isis. E coglie l’occasione per giocare una partita tutta personale aperta a più fronti, con cui cerca di mascherare contraddizioni e azioni sanguinarie che lo vedono protagonista in casa. Si rivolge al mondo arabo, assai diviso, in cui un organismo un tempo rappresentativo qual è la Lega Araba, riesce sempre meno a decidere qualcosa. Attualmente il gruppo di potere più forte, non solo economicamente, è il Consiglio di Cooperazione del Golfo dentro il quale le petromonarchie, molto amate e protette dagli Stati Uniti, vivono comunque contrasti, gelosie, contrapposizioni. A scontrarsi sono Arabia Saudita e il piccolo ma ricchissimo e attivissimo Qatar, ciò nonostante la lobby delle riserve energetiche impone il suo peso. Lo sguardo di Al-Sisi s’allunga all’intero Maghreb, quello dell’estremo occidente marocchino e della centrale Tunisia. Monarchia e repubblica che cercano di sopportare l’Islam politico in una versione meno combattentistica, anche per difendersi dalle tentazioni jihadiste interne, due governi interessati a sigillare i confini ed evitare infiltrazioni dei miliziani jihadisti.
A costoro il presidente golpista dice: posso rappresentare la vostra salvezza. Il discorso di Sisi è rivolto ad altri due fronti esterno e interno. L’internazionale europeo è estremamente intimorito, Italia in testa, dallo scoprire che il Daesh è a trecento km da Lampedusa e mille dalla caput mundi della cristianità. Nella campagna di difesa dalla violenza dei drappi neri il generalissimo è disposto a impegnare la sua aviazione e magari anche i propri militari, visto che le potenze occidentali finora nicchiano sull’ipotesi d’un intervento di terra. Con questa mossa conquisterebbe non solo i cuori dei suoi mentori statunitensi e degli amanti dello stato forte in Europa, ma la simpatia di quei progressisti del vecchio continente che si chiedevano se l’attuale Egitto non fosse finito in una dittatura peggiore di quella mubarakiana. O più semplicemente se nulla fosse mutato su questo versante, visto che l’intento è far finta che la metà di quella nazione, vicina all’Islam della Fratellanza, non esiste. Politicamente non esiste più proprio per la reazione incarnata dai diciotto mesi che hanno fatto grande Al-Sisi, e questo vuoto scavato a suon di pallottole e galera rischia anche lì d’essere occupato dal jihadismo, dello stesso Isis, che può reclutare fra i ragazzi diseredati che quattro anni or sono speravano in qualche cambiamento socio-politico.
L’ultimo fronte è appunto l’interno. Che già prevede elezioni (21-22 marzo e 6-7 maggio, il Parlamento fu sciolto dal Consiglio dei militari nel luglio 2012) nelle quali Sisi si misura con se stesso. I residuali della Brotherhood e il cosiddetto Fronte della Legittimità rilanciano un boicottaggio delle urne, chi guarda al voto si ritrova cooptato da una lista pilotata dallo stesso presidente. Si chiama "Per amore dell’Egitto" e mostra una sfilza di personaggi dell’era Mubarak. Al-Ganzouri, i liberali del Wafd, quello che fu il Free Egypt del tycoon copto Sawiris, una schiera di businessmen guidata da Fagar Anier leader degli industriali di Alessandria, il magnate automobilistico Wagih Abaza e Talaat Mostafa, sorella dell’imprenditore Tarek che al regime di Mubarak deve le fortune sue e di famiglia. In più l’ex ufficiale dell’Intelligence Al-Yazal e pure un rappresentante dei Tamarod, Mahmoud Badr. Di chi possa fare gli interessi un gruppo di tal fatta è considerazione pletorica. Fra i fondi provenienti dai prestiti esteri (soprattutto dai Saud che sono un grande sponsor di Sisi) ben sei miliardi di dollari sono stati destinati all’acquisto di 24 Rafale, jet da combattimento francesi, ora ampiamente giustificati per i venti di guerra che il generale si prepara a cavalcare.
Mentre i 10 elicotteri Apache forniti da Washington per la sicurezza nel Sinai rappresentano quasi briciole. Voci ricorrenti affermano che altre armi vengono destinate dal Cairo al generale Khalifa Haftar, speranza del governo di Tobruk contro l’Isis. Di questo militare in pensione da tempo si sa che, dopo le diatribe di fine anni Ottanta con Gheddafi, di cui era strettissimo collaboratore, ma che lo vide scaricato in Ciad elle iniziative “internazionali” del colonnello, era passato per la Repubblica Democratica del Congo prima di ritirarsi a Langley, Virginia, in una villetta non lontana dalla centrale della Cia. Un’autoesilio dorato e chiacchierato, soprattutto quando riapparve in Libia durante la rivolta anti Gheddafi. Secondo alcune tesi spedito lì proprio dalla Cia.
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