Fregando sul tempo le titubanti aspirazioni neocolonialiste del governo italiano, il generale Al Sisi è intervenuto a gamba tesa in Libia, proponendosi all’Unione Europea come partner obbligato per riportare l’ordine nel cortile di casa.
La decapitazione dei 21 operai copti egiziani ha fornito al rais il pretesto per bissare i bombardamenti sul suolo libico, già realizzati nei mesi scorsi, ma su più ampia scala. Il nuovo regime ‘laico’ egiziano, che ha destituito con un colpo di stato il governo dei Fratelli Musulmani perseguitati e messi fuorilegge, trova ora nuova legittimazione nel suo intervento militare contro lo Stato Islamico che minaccia le sue frontiere occidentali e che di fatto controlla una larga pozione del Sinai mettendo a dura prova il pur imponente dispositivo bellico messo in campo dal Cairo.
Spietato con le diverse correnti islamiste in patria, ora Al Sisi si propone come strumento obbligato della riscossa – e degli interessi – occidentali in Nordafrica. Come chiariscono già generali e analisti, per riprendere il controllo della Libia centro-orientale divenuta terra di conquista delle milizie di Al Baghdadi non basteranno certo i 5000 soldati che il duetto Pinotti-Gentiloni avevano frettolosamente schierato sulla mappa virtuale del “bel suol d’amore”. Di truppe ce ne vorrebbero, dice chi ne sa di più dei ministri con l’elmetto, almeno dieci volte tanto. E non si tratterebbe certo di una missione di peacekeeping tra due parti che consensualmente affidano a terzi il compito di separarli, ma di un’operazione di guerra – o di peace enforcing, come usa dire chi ha da tempo stracciato la carta costituzionale – che comporterebbe mezzo miliardo di euro di spese e qualche decina se non centinaia di vittime tra ‘i nostri ragazzi’.
Una complicazione che accresce enormemente le aspirazioni di Al Sisi, che può offrire il suo ‘aiuto’ sul campo in cambio di copertura e riconoscimento internazionale, finanziamenti a pioggia e la fornitura di armi e commesse. D’altronde il generale egiziano è spregiudicato, usa a sua favore la competizione globale e quindi tratta su più tavoli: con l’Unione Europea, ma contemporaneamente anche con Washington, e ancora con la Russia e l’Arabia Saudita. Più sono numerosi i contendenti e gli appetiti, più il Cairo può alzare la posta del proprio coinvolgimento diretto risparmiandolo alle nuove e vecchie potenze. Che poi l’esercito egiziano decida di limitare una eventuale campagna bellica in grande stile ai bombardamenti aerei “appaltando” il più rischioso intervento di terra alle truppe del generale libico Khalifa Haftar e alle milizie del governo filoccidentale di Tobruk è assai probabile.
Da notare che la vicenda libica segna l’ascesa dell’egemonia dell’Arabia Saudita e del Polo Islamico guidato da Riad anche nello scenario nordafricano, dopo quello mediorientale vero e proprio. Da subito ad Al Sisi – generale laicista che fa strage di musulmani egiziani – sono giunti la solidarietà e il sostegno del regime wahabita di Riad, e il nuovo sovrano Salman, in qualità di ministro della Difesa saudita, non ha perso tempo per stringere legami economici, politici e militari con il presidente egiziano, portandosi dietro gli Emirati Arabi Uniti che dopo essere intervenuti – seppur di malavoglia e a singhiozzo – contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq ora potrebbero aggiungersi ad una eventuale replica della ‘coalizione internazionale’ in versione libica. C’è chi dice che i caccia di Abu Dhabi stiano in realtà già bombardando Derna e Sirte assieme a quelli egiziani.
Una strategia di penetrazione nel Maghreb che permetterebbe a Riad e al Consiglio di Cooperazione del Golfo di estendere la propria egemonia nel Nordafrica, anche se in collaborazione-competizione con Parigi che pure non nasconde il suo interesse per un’area nella quale gli agganci italiani e il controllo statunitense sono assai inferiori rispetto al passato.
Lo stesso Egitto nelle ultime settimane ha mandato a Washington due segnali inequivocabili di cambiamento rispetto alla tradizionale subalternità del paese agli Stati Uniti per quanto riguarda le forniture militari e tecnologiche. L’acquisto da parte egiziana di 24 caccia Rafale francesi parla da solo. Per non parlare del patto di collaborazione stretto da Al Sisi con Vladimir Putin la scorsa settimana e che comprende la realizzazione di una centrale nucleare, oltre che diversi progetti in campo militare e tecnologico. Ma non basta. Nei giorni scorsi la Rivista Italiana Difesa pubblicava la notizia del possibile acquisto da parte egiziana di armi russe grazie ai finanziamenti sauditi. Il che si che sarebbe una brutta notizia per Washington.
Anche nello scenario libanese sauditi e francesi sembrano interessati per ora a una collaborazione/competizione mirante a ridurre l’influenza degli Stati Uniti da una parte e dell’asse sciita dall’altra, rafforzando le forze sunnite. Per frenare un’insorgenza islamista sfuggita di mano, in buona parte frutto del sostegno saudita – oltre che turco – nei giorni scorsi il regime wahabita ha messo sul piatto nientemeno che 3 miliardi di dollari che andrebbero a finanziare l’acquisto da parte del governo libanese di armi e sistemi tecnologici francesi. Sono diversi i gruppi armati estremisti, legati ad Al Qaeda e in maniera crescente allo Stato Islamico, che controllano ampie porzioni del territorio libanese e ingaggiano sanguinosi scontri con un debole esercito regolare e con le milizie di Hezbollah o alawite. Il rischio è che il protagonismo militare di Hezbollah sia all’interno contro gli estremisti sunniti, sia contro Israele, sia in Siria contro l’Is e al Nusra metta ulteriormente all’angolo l’esercito controllato dalle forze fedeli a Parigi e Riad. Ecco che allora la Francia mette a disposizione le sue armi, pagate dai petrodollari sauditi, in modo da rifornire l’esercito libanese con 220 blindati, artiglieria pesante, elicotteri da combattimento, motovedette lanciamissili e sistemi radar.
Il protagonismo dei sauditi e delle altre petromonarchie è evidente in queste ore anche nello scenario yemenita. Dopo il dilagare delle milizie sciite Houthi che hanno spazzato via il governo e il parlamento dominati negli ultimi anni dai sunniti, Riad è intenzionata a correre ai ripari e a dare manforte alle proprie pedine finite fuori gioco. Le petromonarchie stanno esercitando forti pressioni sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinché autorizzi un intervento militare di Arabia Saudita e soci per “ristabilire la legalità nello Yemen”. Alla fine la risoluzione, adottata all’unanimità dai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, chiede ai ribelli sciiti di ritirare “immediatamente e senza condizioni” le proprie truppe che assediano le istituzioni governative, minacciando sanzioni ma senza dare il via libera alle truppe di Riad. Ma i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che chiedevano al Consiglio di Sicurezza di applicare il capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite autorizzando un intervento armato nello Yemen, potrebbero decidere di intervenire comunque senza l’autorizzazione formale dell’Onu. D’altronde pochi anni fa Riad inviò le sue truppe in Bahrein per schiacciare e reprimere la rivolta della maggioranza sciita che chiedeva diritti e democrazia, puntellando così il potere del regime sunnita totalmente dipendente dall’Arabia Saudita. All’epoca nessuna voce si levò in occidente per chiedere sanzioni o addirittura la guerra contro un paese intervenuto militarmente in casa d’altri. I soliti due pesi e due misure…
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