A Renzi, che dovrà penare non poco per
farsi approvare la legge elettorale al Senato (e più penerà più
dipenderà dagli alleati) non è quindi restato che inaugurare Expo
facendo un po’ di marketing per il governo. Stiamo parlando
dell’Esposizione universale che è il vero tempio del disastro economico e
sociale della seconda Repubblica. Expo voluta da Prodi e dall’allora
sindaco Moratti nel 2007 doveva essere la solita bolla
immobiliare-finanziaria più o meno adattata a volano dell’economia
lombarda. Come prevedibile, tangenti, addirittura stabilite da
patti tra vecchi ras inquisiti per la tangentopoli del ’92 (un ex DC e
un ex PCI ad esempio), project-financing, costi gonfiati, contenziosi
giudiziari, appalti al massimo ribasso, crisi del credito, tagli,
consigli di amministrazione surreali, affidamenti di opere in modo
discrezionale hanno trasformato Expo nel consueto buco nero
dell’economia italiana. Per non parlare dei salari, livello zero tanto
per contribuire alle trimestrali di cassa delle imprese, negati ai
volontari che si massacreranno per “un’esperienza”. Ma la cosa più grave
di Expo, che ha fatto solo sorridere il solito nucleo di ditte e di
cooperative che la fa da padrone dagli anni ‘90 (tutto lottizzato tra
centrodestra, centrosinistra e Lega Nord) è che, di fatto, non lascerà
traccia. O meglio, rischia solo di lasciare traccia nelle opere mai
finite. Non è chiaro infatti non solo quale sarà il destino
delle aree inaugurate ma se esista un futuro, un traino economico,
tecnologico e sociale rappresentato da Expo.
L’Italia, del resto, già con i
mondiali ’90 ha dimostrato, a differenza della Germania con i mondiali
2006, come si possa arrivare alla costruzione di grandi opere in modo
così disastroso da lasciare terra bruciata a evento finito.
Questo per capirsi sul fatto che al miraggio delle grandi opere ci
possono giusto ormai credere quelli che votano “per Matteo” sul pulsante
del telecomando di Sky al referendum del giorno. L’inaugurazione di
Renzi a Expo è stata poi, dal punto di vista dell’immagine globale, una
vera e propria Waterloo. Ora non ci vuole molto a intendersi sul fatto
che per un’esposizione che si chiama “universale” si ha tanto più
successo tanto più si sa parlare all’audience globale. Renzi, che oltre
le polemiche da pollaio proprio non riesce ad uscire, ha invece usato il
suo discorso come ennesima riedizione della polemica contro quelli che
gufano contro il suo governo. Persino noi, che vediamo la finanza
globale come la peste, sappiamo che più sai toccare i temi che piacciono
all’audience globale più fai marketing territoriale. Bene,
Renzi ha plasticamente dimostrato di non essere in grado di farlo non
avendo il respiro retorico, e nemmeno i ghost-writer, per questo genere
di occasioni. Ha usato la diretta mondiale per battibeccare con i
compagni di cortile che, secondo lui, gli dicevano che non avrebbe mai
finito Expo. Non ci vuole molto a capire che il prodotto Italia si vende
in un altro modo. Siccome le tv italiane per Expo sono state, come
prevedibile, militarizzate il problema non è uscito fuori. Ma
si tratta di atteggiamenti che, alla lunga, pesano. Aspettare per
credere: l’immagine globale pesa per gli investitori internazionali,
perché catalizza investimenti, Renzi non può vivere a lungo sul
simbolico del “giovane leader dinamico”. Deve dire qualcosa al mondo,
magari di sensato ed incisivo. E qui ci si rende conto di chiedere
troppo a qualcuno che campa di rendita, dal punto di vista comunicativo,
solo sul riciclo delle parole d’ordine degli ultimi 20 anni di
liberismo.
Nel
pomeriggio l’inaugurazione di Expo si è scatenato un riot di protesta,
nel centro di Milano, come non se ne vedevano nella città lombarda dal
settembre del ’94 (all’epoca della rioccupazione del
Leoncavallo). Un riot, a nostro avviso, non delle dimensioni dello
storico 10 settembre ma sicuramente espressione di un corteo consistente
ad alto impatto spettacolare (perché c’è un piano di audience che paga
molto di più della fedeltà a “Matteo”: gli incidenti almeno 3 giorni di
prime pagine offline e online, e quindi di pubblicità, li fanno mentre
Expo con il resto di Napolitano fa mezza giornata). Ora lasciamo, come è
naturale che sia, la valutazione più propriamente politica della
giornata a chi l’ha organizzata, e vissuta. Inoltre, qualcuno farebbe
meglio a rendersi conto, e a volte capire come funziona la vita non è
male, che i riot accadono non per delirio ideologico ma perché c’è un
qualcosa che è ritenuto veramente insopportabile. In questo caso
tutta la vicenda Expo, col suo corollario di corruzione, di esproprio di
beni pubblici, di sgomberi e di sfruttamento, e il Jobs Act che non ha
prodotto posti di lavoro ma solo liquefazione dei diritti e sgravi alle
imprese. Del resto la tv, ormai a reti unificate, non
si è nemmeno presa lo sforzo di informare, anche superficialmente, sulle
ragioni della protesta. Come ormai accade da lustri, e a noi pare un
problema di democrazia molto più grosso di una vetrina in frantumi, la
rappresentazione delle idee, quelle non concordate tra ceto politico e
redazioni di tg, semplicemente non c’è.
Il punto è però che con gli scontri del
sabato pomeriggio, il simbolico della giornata, quello da vendere a
milioni di persone in prime time, si è rovesciato di significato.
L’inaugurazione di Expo, con la trovatina di cambiare le strofe
dell’Inno di Mameli, è finita in secondo piano rispetto ad una metropoli
straniata dagli incendi e dalla circolazione delle tute nere. In
effetti la vera notizia, vera irruzione di novità nella rappresentazione
del panico metropolitano in una città che il panico lo percepisce ma lo
nega, rispetto al rituale renziano ormai consolidato e metabolizzato
dagli stessi media schierati. Qualcosa di diverso rispetto
all’inaugurazione della torre della Bce, dove comunque la partecipazione
alla protesta è apparsa meno legata all’immaginario del centro città
sottratto al governo come nel pomeriggio milanese. Certo, si parla di
spettacolo, ma così funziona l’emersione dei contenuti nel 21 secolo.
Forse un po’ più di costruzionismo, nel capire come si sedimentano i
contenuti, e meno moralismo aiuterebbero a capire come funzionano le
nostre società.
Così con i riot Renzi si accorge che c’è vita oltre Twitter. Che fenomeni indistinti, per lui, e oscuri gli sfuggono.
E si inquieta perché non li controlla come se fossero un D’Attorre o un
Fassina. Inquietudine che filtra nel comunicato dedicato agli incidenti
dove, scompostamente, ha dato dei “vigliacchi” ai manifestanti cercando
di ribadire una cosa. L’unica che gli interessa: che la vera immagine
della giornata era il coro di bambini che cantavano l’inno di Mameli.
Tentativo di ristabilire una gerarchia della percezione delle immagini
che, una volta tanto, non andrà a segno. La rottura dei media ritual,
come sappiamo, favorisce sempre il protagonismo simbolico di chi la
esercita. E ad Expo il media ritual è stato interrotto. Altre volte non è
così, per miriadi di motivi, stavolta lo è stato. Questo ovviamente sul
piano comunicativo. Poi la politica, come sappiamo, è qualcosa di più
articolato fino all’estremamente complesso. E non ce lo viene certamente
a raccontare un Pisapia. Del resto Pisapia, nel corso degli anni, ha
soccorso Deutsche Bank, ritirando la costituzione di parte civile del
comune di Milano sullo scandalo derivati finanziari (fatto gravissimo),
ha supportato sgomberi di case e centri sociali. Questo senza
soffermarsi al ruolo del comune in Expo. Diciamola in due parole: se la
sua elezione doveva rappresentare un compromesso accettabile tra
sinistre ha completamente fallito. La sinistra istituzionale in Italia,
sapendo che più sinistre sono qualcosa di naturale e persino
inevitabile, ha bisogno di economisti critici e innovativi sui territori
non dei Pisapia, avvocatesco ceto politico colluso che finisce per
accodarsi, in ultima istanza, alle esigenze PD. In modo politicamente
corretto s’intende.
Comunque visto che c’è vita oltre
Twitter è meglio che questa si organizzi. Il presidente del consiglio,
oltre a voler durare, non ha idee precise sul da farsi. Con una
situazione economica, nel migliore dei casi, paralizzata questo
rappresenta una cattiva notizia come uno stimolo a far, presto, qualcosa
di sensato contro l’ultimo, si spera in senso definitivo, degli
improbabili al governo del paese.
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