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04/05/2015

Expo: Renzi si accorge che c’è vita oltre Twitter

È stata una settimana decisamente dura per l’uomo immagine del Pd, segretario di un partito senza spina dorsale e presidente del Consiglio. Il primo colpo, grosso, glielo ha dato la Corte Costituzionale. La sentenza che liquida il congelamento degli aumenti delle pensioni (voluto da Monti-Fornero) come incostituzionale, pone problemi serissimi al governo. Problemi tipici di chi è assoggettato a Bruxelles e Francoforte e a qualche fondo d’investimento (persino Brunetta ha avuto gioco facile alla Camera a svergognare il governo sui prodotti finanziari tossici). In poche parole, mentre il governo è in difficoltà per trovare 4-5 miliardi di tagli, per arrivare a quota 10 a fine anno, almeno altri 5-6 sono da recuperare dopo la sentenza della Corte. Certo basterebbe questa situazione per fare capire, anche ad un governo pallidamente socialdemocratico, che è il caso di allearsi con la Grecia e mettere seriamente in discussione le politiche di austerità. Ma Renzi esiste per garantire, in Italia, i sacerdoti della moneta, quelli che guadagnano con l’austerità. Ma, con le difficoltà oggettive nelle politiche di bilancio, non sarà affatto facile tagliare e, allo stesso tempo, trovare il consenso per nuovi tagli. Oltre al fatto che, come si capisce dalla sentenza della Corte, nessun potere reale dello Stato ci sta a farsi disarticolare dalla crisi, e dal conseguente smantellamento dei poteri istituzionali, come se fosse una provincia o una comunità montana qualsiasi.

A Renzi, che dovrà penare non poco per farsi approvare la legge elettorale al Senato (e più penerà più dipenderà dagli alleati) non è quindi restato che inaugurare Expo facendo un po’ di marketing per il governo. Stiamo parlando dell’Esposizione universale che è il vero tempio del disastro economico e sociale della seconda Repubblica. Expo voluta da Prodi e dall’allora sindaco Moratti nel 2007 doveva essere la solita bolla immobiliare-finanziaria più o meno adattata a volano dell’economia lombarda. Come prevedibile, tangenti, addirittura stabilite da patti tra vecchi ras inquisiti per la tangentopoli del ’92 (un ex DC e un ex PCI ad esempio), project-financing, costi gonfiati, contenziosi giudiziari, appalti al massimo ribasso, crisi del credito, tagli, consigli di amministrazione surreali, affidamenti di opere in modo discrezionale hanno trasformato Expo nel consueto buco nero dell’economia italiana. Per non parlare dei salari, livello zero tanto per contribuire alle trimestrali di cassa delle imprese, negati ai volontari che si massacreranno per “un’esperienza”. Ma la cosa più grave di Expo, che ha fatto solo sorridere il solito nucleo di ditte e di cooperative che la fa da padrone dagli anni ‘90 (tutto lottizzato tra centrodestra, centrosinistra e Lega Nord) è che, di fatto, non lascerà traccia. O meglio, rischia solo di lasciare traccia nelle opere mai finite. Non è chiaro infatti non solo quale sarà il destino delle aree inaugurate ma se esista un futuro, un traino economico, tecnologico e sociale rappresentato da Expo.

L’Italia, del resto, già con i mondiali ’90 ha dimostrato, a differenza della Germania con i mondiali 2006, come si possa arrivare alla costruzione di grandi opere in modo così disastroso da lasciare terra bruciata a evento finito. Questo per capirsi sul fatto che al miraggio delle grandi opere ci possono giusto ormai credere quelli che votano “per Matteo” sul pulsante del telecomando di Sky al referendum del giorno. L’inaugurazione di Renzi a Expo è stata poi, dal punto di vista dell’immagine globale, una vera e propria Waterloo. Ora non ci vuole molto a intendersi sul fatto che per un’esposizione che si chiama “universale” si ha tanto più successo tanto più si sa parlare all’audience globale. Renzi, che oltre le polemiche da pollaio proprio non riesce ad uscire, ha invece usato il suo discorso come ennesima riedizione della polemica contro quelli che gufano contro il suo governo. Persino noi, che vediamo la finanza globale come la peste, sappiamo che più sai toccare i temi che piacciono all’audience globale più fai marketing territoriale. Bene, Renzi ha plasticamente dimostrato di non essere in grado di farlo non avendo il respiro retorico, e nemmeno i ghost-writer, per questo genere di occasioni. Ha usato la diretta mondiale per battibeccare con i compagni di cortile che, secondo lui, gli dicevano che non avrebbe mai finito Expo. Non ci vuole molto a capire che il prodotto Italia si vende in un altro modo. Siccome le tv italiane per Expo sono state, come prevedibile, militarizzate il problema non è uscito fuori. Ma si tratta di atteggiamenti che, alla lunga, pesano. Aspettare per credere: l’immagine globale pesa per gli investitori internazionali, perché catalizza investimenti, Renzi non può vivere a lungo sul simbolico del “giovane leader dinamico”. Deve dire qualcosa al mondo, magari di sensato ed incisivo. E qui ci si rende conto di chiedere troppo a qualcuno che campa di rendita, dal punto di vista comunicativo, solo sul riciclo delle parole d’ordine degli ultimi 20 anni di liberismo.

Nel pomeriggio l’inaugurazione di Expo si è scatenato un riot di protesta, nel centro di Milano, come non se ne vedevano nella città lombarda dal settembre del ’94 (all’epoca della rioccupazione del Leoncavallo). Un riot, a nostro avviso, non delle dimensioni dello storico 10 settembre ma sicuramente espressione di un corteo consistente ad alto impatto spettacolare (perché c’è un piano di audience che paga molto di più della fedeltà a “Matteo”: gli incidenti almeno 3 giorni di prime pagine offline e online, e quindi di pubblicità, li fanno mentre Expo con il resto di Napolitano fa mezza giornata). Ora lasciamo, come è naturale che sia, la valutazione più propriamente politica della giornata a chi l’ha organizzata, e vissuta. Inoltre, qualcuno farebbe meglio a rendersi conto, e a volte capire come funziona la vita non è male, che i riot accadono non per delirio ideologico ma perché c’è un qualcosa che è ritenuto veramente insopportabile. In questo caso tutta la vicenda Expo, col suo corollario di corruzione, di esproprio di beni pubblici, di sgomberi e di sfruttamento, e il Jobs Act che non ha prodotto posti di lavoro ma solo liquefazione dei diritti e sgravi alle imprese. Del resto la tv, ormai a reti unificate, non si è nemmeno presa lo sforzo di informare, anche superficialmente, sulle ragioni della protesta. Come ormai accade da lustri, e a noi pare un problema di democrazia molto più grosso di una vetrina in frantumi, la rappresentazione delle idee, quelle non concordate tra ceto politico e redazioni di tg, semplicemente non c’è.

Il punto è però che con gli scontri del sabato pomeriggio, il simbolico della giornata, quello da vendere a milioni di persone in prime time, si è rovesciato di significato. L’inaugurazione di Expo, con la trovatina di cambiare le strofe dell’Inno di Mameli, è finita in secondo piano rispetto ad una metropoli straniata dagli incendi e dalla circolazione delle tute nere. In effetti la vera notizia, vera irruzione di novità nella rappresentazione del panico metropolitano in una città che il panico lo percepisce ma lo nega, rispetto al rituale renziano ormai consolidato e metabolizzato dagli stessi media schierati. Qualcosa di diverso rispetto all’inaugurazione della torre della Bce, dove comunque la partecipazione alla protesta è apparsa meno legata all’immaginario del centro città sottratto al governo come nel pomeriggio milanese. Certo, si parla di spettacolo, ma così funziona l’emersione dei contenuti nel 21 secolo. Forse un po’ più di costruzionismo, nel capire come si sedimentano i contenuti, e meno moralismo aiuterebbero a capire come funzionano le nostre società.

Così con i riot Renzi si accorge che c’è vita oltre Twitter. Che fenomeni indistinti, per lui, e oscuri gli sfuggono. E si inquieta perché non li controlla come se fossero un D’Attorre o un Fassina. Inquietudine che filtra nel comunicato dedicato agli incidenti dove, scompostamente, ha dato dei “vigliacchi” ai manifestanti cercando di ribadire una cosa. L’unica che gli interessa: che la vera immagine della giornata era il coro di bambini che cantavano l’inno di Mameli. Tentativo di ristabilire una gerarchia della percezione delle immagini che, una volta tanto, non andrà a segno. La rottura dei media ritual, come sappiamo, favorisce sempre il protagonismo simbolico di chi la esercita. E ad Expo il media ritual è stato interrotto. Altre volte non è così, per miriadi di motivi, stavolta lo è stato. Questo ovviamente sul piano comunicativo. Poi la politica, come sappiamo, è qualcosa di più articolato fino all’estremamente complesso. E non ce lo viene certamente a raccontare un Pisapia. Del resto Pisapia, nel corso degli anni, ha soccorso Deutsche Bank, ritirando la costituzione di parte civile del comune di Milano sullo scandalo derivati finanziari (fatto gravissimo), ha supportato sgomberi di case e centri sociali. Questo senza soffermarsi al ruolo del comune in Expo. Diciamola in due parole: se la sua elezione doveva rappresentare un compromesso accettabile tra sinistre ha completamente fallito. La sinistra istituzionale in Italia, sapendo che più sinistre sono qualcosa di naturale e persino inevitabile, ha bisogno di economisti critici e innovativi sui territori non dei Pisapia, avvocatesco ceto politico colluso che finisce per accodarsi, in ultima istanza, alle esigenze PD. In modo politicamente corretto s’intende.

Comunque visto che c’è vita oltre Twitter è meglio che questa si organizzi. Il presidente del consiglio, oltre a voler durare, non ha idee precise sul da farsi. Con una situazione economica, nel migliore dei casi, paralizzata questo rappresenta una cattiva notizia come uno stimolo a far, presto, qualcosa di sensato contro l’ultimo, si spera in senso definitivo, degli improbabili al governo del paese.

Redazione - 2 maggio 2015

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