Le copertine dei giornali degli scorsi giorni, le principali testate
online, gli editorialisti di punta di tutte le redazioni non hanno
dubbi: il modo migliore per raccontare gli avvenimenti dei BaltimoreRiots è quello di focalizzarsi sull'ormai arcinota scena della madre che
si accorge che il proprio figlio è in prima linea negli scontri,
decidendo quindi di andarlo a riprendere e non lesinando schiaffi per
raggiungere il proprio obiettivo. E' ormai un tormentone da Festivalbar,
ripetuto in maniera compulsiva a rete e canali mediatici unificati,
secondo una modalità di cui altre volte avevamo già visto anticipazioni
(basti pensare ai poliziotti che si levarono il casco a Torino durante
una manifestazione indetta - ma eterogeneamente attraversata - dai
"forconi", o per rimanere in tema, all'abbraccio tra il poliziotto e il
bambino a Ferguson...)
L'immagine (fotografica o
video), come al solito, è il medium più immediato per comunicare una
lettura: basta tagliarla, estrapolarla dal contesto o costruirne uno
adeguato attorno ad essa. E non pare vero ai tanti retori delle “madri-coraggio”
di cui possiamo leggere le bestialità sui giornali, di poter offrire in
questo modo una sorta di suggerimento implicito alle tanti madri che
magari hanno proprio pensato qualche volta ad un comportamento del
genere, sulle ali della sacrosanta paura di perdere il proprio figlio.
Perchè la paura di morire è viva dove la recita della
vita quotidiana è infranta, interrotta dalla storia nuda e cruda,
dall'evidenza per l'occhio, dal durare del razzismo e della violenza dei
poteri costituiti.
“E' il mio unico figlio maschio!” si lamenta poi la donna davanti alle telecamere, portandoci ad alcune considerazioni: inanzitutto sull'importanza dell'aggettivo “maschio”,
che supera la dimensione dell'”unico figlio” riportandoci alla
dimensione della povertà e soprattutto della valorizzazione possibile,
basata sul genere e sulle possibilità differenziate a partire dal
genere. Nell'America più povera, dove sono tante le donne sicuramente forti
e coraggiose a portare avanti nuclei familiari orfani della figura
maschile per via di disimpegno o di guai giudiziari, come valutiamo il
fatto che sembra resistere la necessità della sopravvivenza di
quell'”unico figlio maschio” per riuscire a salire sull'ascensore sociale che porta fuori dalle miserie del ghetto?
Le
scene di madri così dipendenti dalla sorte del proprio “unico figlio
maschio” ricordano più la storia della Cina, dell'India, dell'Afria, dei
cosiddetti "paesi in via di sviluppo" piuttosto che di uno stato ricco e
potente come l'America, dove evidentemente però il peso del genere è
ancora centrale nella gerarchia sociale ed economica. I retori delle
“madri-coraggio” dovrebbero chiedersi, invece di sottolineare l'eroismo
di chi non cede alla violenza anche se parte della comunità nera, se
quella madre si scagli contro la violenza del figlio o se piuttosto non
cerchi di evitare che la perdita di suo figlio non significhi il
definitivo abbandono della speranza di un'elevazione sociale. Per noi resta il fatto che quella donna non ha difeso la polizia dalle pietre, ma il figlio dal piombo della polizia. E questo fa tutta la differenza del mondo.
O
si dovrebbero chiedere se più che la reprimenda al figlio per i suoi
gesti non ci sia la paura che il proprio stesso figlio diventi un nuovo Freddie Gray
visto che i dati dicono che ciò potrebbe tranquillamente succedere. Del
resto lo sappiamo che ormai è quasi un'abitudine per le madri della
comunità afroamericana perdere i propri figli, è successo in centinaia
di casi negli ultimi mesi... ma questo non interessa, agli alfieri delle
madri-coraggio. Alfieri che sono gli stessi che da un lato si stupiscono
del fatto che Baltimora, che ha un sindaco donna e nero, possa vivere
ancora momenti di questo tipo: ma la lezione di Obama, o della Merkel
presidente, ben ci avevano già fatto capire che il posizionamento
rispetto alla linea del colore e del genere va sempre considerato
nell'ambito di quello di classe.
Un
posizionamento di classe che si rispecchia anche nella geografia urbana e
sociale delle città: leggiamo da un testo di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera
che le madri-coraggio per cui si esalta lo stesso quotidiano sono
quelle che hanno cresciuto i loro figli “nell'abbandono degli slum, in
famiglie spesso devastate, con molti di loro non hanno mai conosciuto
l'autorità paterna.” Farebbero male a ribellarsi? La colpa di quella
devastazione sociale è loro o di condizioni politiche ed economiche che
secolarmente hanno messo i neri ai margini della società?
A
questa domanda pare rispondere, dalle colonne di Repubblica, Vittorio
Zucconi, in un passaggio stranamente condivisibile rispetto alle
opinioni medie del quotidiano su cui è pubblicato: ”Nella disperazione
del sentirsi condannato al fondo del barile sociale, per propria o per
atrui responsabilità non importa, ogni contatto con l'espressione più
dura e immediata del potere, la polizia, il braccio armato del “Man”,
del padrone, questi profughi e naufraghi della rivoluzione etnica
trovano la conferma della iniquità, ormai affidata anche a coloro che
sembrano, ma non sono più, “brothers and sisters”, fratelli e sorelle di
colore. Tra la sfacciata, impunita brutalità della polizia, che non è
solo bianca, e la certezza della propria condanna a vita a restare
sull'ultimo gradino sociale, l'assalto al minimarket, il saccheggio
delle bottiglierie, le molotov, lo scambio di proiettili, le cariche e
le controcariche diventano l'unica forma di espressione”.
Insomma, come già avvenne per gli UkRiots del 2011, o in precedenza per i riots di Ferguson, o tornando ancora più indietro nei riots di LA che seguirono all'omicidio di Rodney King,
anche questa volta pare confermarsi l'assunto di Martin Luther King che
casualmente quasi mai viene ricordato tra i pensieri del grande
lottatore per i diritti civili americani. “A riot is the language of the unheard”,
la rivolta è il linguaggio di chi non ha voce. Ma soprattutto è il
linguaggio di chi il coraggio lo mette nello stare sulla prima fila
della barricata, in una lotta che non è contro la propria famiglia, ma
che è intesa come l'unico mezzo di riscatto di questa.
Va
rifiutata con forza la significazione di quel video come esempio del
trionfo del “ruolo della madre”, veicolo ideologico e niente più,
educatrice e dispensatrice di Verità Costituite per l'ingenuo,
scapestrato, traviato adolescente. Preferiamo pensare ad un'altra
significazione, ma più che altro sperare in essa, ovvero nella “Madre” di Brecht
(opera teatrale del 1932 tratta dal libro di Gorki del 1907). La Madre
non vuole che il figlio Pavel faccia agitazione in fabbrica, ma la
polizia le devasta la casa, Pavel viene fucilato... allora lei raccoglie
la bandiera rossa di Pavel e la porta in spalla fino alla vecchiaia
inoltrata. La sua grande famiglia, lì dove è ascoltata come una maestra
(sdegno e tenacia, scienza e ribellione), è ora la rivoluzione. Da "schiaffeggiatrice" a bolscevica.
Non
ci è dato sapere se la madre di Baltimora sarà un'altra Pelagia
Vlassova, ma certamente vuole più bene al figlio che alla polizia. Ed è
tutt'altro che da biasimare...
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