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14/05/2015

Mao o Renzi? Inventarsi l’uscita dell’Italia dalla recessione è glorioso

Chi ha una qualche dimestichezza con la storia della collettivizzazione forzata dei kulaki nell’URSS sa che le statistiche su tale processo erano immancabilmente vere. Per cui corrispondeva a verità la statistica ufficiale che parlava di passaggio, nella presenza di fattorie collettive nell’URSS, dal 3,9 per cento del 1929 ad oltre il 64 per cento in soli 5 anni. Insistere su queste statistiche significava evidenziare il successo del processo di collettivizzazione forzata. Il problema è che, nello stesso periodo, la produzione di grano calò vertiginosamente (es. 13 milioni di tonnellate del 1932, anche a causa della terribile carestia in Ucraina). Allo stesso tempo, se vediamo le statistiche sulla fioritura delle comuni popolari agricole in Cina, secondo il modello economico del grande balzo in avanti di Mao, ci accorgiamo come in un solo anno ne nascano decine di migliaia. Anche questo corrisponde a verità, solo che il triennio 1959-62 è quello, citando le stesse cifre riconosciute dalle autorità cinesi, dove la carestia produrrà una quindicina di milioni di morti. Anche lì all’epoca l’insistenza sui numero dello sviluppo delle comuni popolari, nella retorica di propaganda, è servita per coprire il reale disastro economico ed umano della Cina popolare dell’epoca.

Il governo Renzi, col suo marketing a reti unificate, sembra così una caricatura della campagna maoista sull’eliminazione dei quattro flagelli della Cina, che fa parte della più complessiva propaganda del (fallito) balzo in avanti operata dal Partito Comunista Cinese. Per Mao i quattro flagelli erano, ricalcati sull’immaginario e sulle esigenze di una società ancora sostanzialmente agricola: i passeri, le zanzare, le mosche e i topi. Si trattava quindi di nemici della natura da sterminare per permettere all’agricoltura di svilupparsi. A parte le immense distese di DDT delle quali fu inondata la Cina, e a parte che lo sterminio dei passeri causò una invasione di insetti e parassiti pericolosissima per l’agricoltura, la campagna contro i quattro flagelli fallì clamorosamente (es. i contadini cinesi finirono per allevare topi per riscuotere la taglia che il governo dava a chi li cacciava). I quattro flagelli di Renzi, invece, sono: le garanzie per lavoro, stato sociale, scuola e rappresentanza democratica. Per ognuna di questi ha previsto una specifica campagna, tutti temi che conosciamo benissimo dal Jobs Act alla legge elettorale, al DEF con la consueta stella polare dell’avanzo primario di bilancio. Come nella Cina del periodo precedente alla rivoluzione culturale, per dare l’impressione di procedere nella campagna contro i quattro flagelli, e per far credere che i flagelli siano davvero tali, il governo si mette a giocare con i numeri. Cercando di dare l’impressione, di una gloriosa uscita dalla stagnazione economica. Infatti la frase “Italia fuori dalla recessione” fa il suo bravo effetto virale su tutte le piattaforme di informazione, praticamente a reti unificate.

Ma di cosa stiamo parlando? Dei commenti alle statistiche su indice di produzione e PIL. Cominciamo dal primo: a marzo 2015, secondo l’Istat, l'indice di produzione è aumentato in termini tendenziali dell'1,5% dall’inizio dell’anno. In un complessivo più 0,3 del trimestre gennaio-marzo 2015 rispetto a quello precedente. Su questo la propaganda del balzo in avanti economico renziano, che si incrocia con quella contro i quattro flagelli, ha martellato molto (specie parlando dei dati sull’industria automobilistica). C’è un però: la stessa Istat ha segnalato che nella media dei primi tre mesi dell'anno la produzione è diminuita dello 0,1% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Questo particolare che, al netto di correzioni di errori e discussioni sulle metodologie di calcolo, segnala una sostanziale stagnazione nella produzione, è stato omesso. La propaganda a reti unificate ha semplicemente lavorato sulla comunicazione di un dato vero (come quello sulla fioritura delle comuni popolari) evitando di raccontarlo nella sua completezza. Nella retorica dei “segnali di ripresa” che funziona sempre come strumento di marketing, sembra così che l’uscita dalla recessione ci sia davvero. Dalla retorica dei segnali di ripresa è invece utile uscire per entrare nel contesto. Ed il contesto è quello illustrato in questo grafico: il calo del 25 per cento della produzione dal 2007. Roba da guerra in corso. Solo che sono gli effetti combinati dell’esplosione della bolla finanziaria del 2008 e della crisi del debito sovrano del 2011-12. Niente bombe, solo finanza.

Gli artisti del "più zero virgola qualcosa", del tendenziale trimestrale, dell’ “uscita dalla recessione” non ci spiegano quindi quanti lustri ci vorranno per recuperare questo calo del 25 per cento. Ammesso, come abbiamo visto dalle stesse dichiarazioni Istat, che questo calo si sia effettivamente fermato. Più che grande balzo in avanti sembra quindi di vedere, come da grafico, il definirsi di un precipizio. Ma il presidente del consiglio, nella sua immensa ironia, evoca sempre i gufi quando viene messo di fronte ai dati reali. C’è solo da sperare che i gufi non facciano la fine del passero in Cina che, all’epoca dei quattro flagelli, fu snidato come se fosse l’occupante giapponese. Salvo accorgersi che lo sterminio dei passeri peggiorò la situazione della presenza dei parassiti nelle campagne. L’altro dato su cui si gioca la campagna sull’ “Italia fuori dalla recessione”, è quello sull’andamento del Pil. Un più 0,3 per cento trimestrale del quale è inutile stare a sindacare se, dal punto di vista tecnico, si tratta di un vero aumento o no (serve almeno un mese di lavoro all’ISTAT per operare la disaggregazione dei dati utile per capire questo più 0,3). Già, perchè che si tratti di vera propaganda, ovvero ingigantire un dato reale per sminuire il contesto altrettanto reale e più importante, lo si capisce subito da un altro dato uscito in questi giorni. Quello sulla deflazione, dove i prezzi si abbassano per rincorrere l’abbassamento dei salari. Si conferma, sempre da fonti Istat, un'inflazione del -0,1% su base annua. In poche parole, siccome la deflazione è un classico indice di recessione economica (si abbassano i prezzi nella speranza di trovare un consumatore), nella propaganda del grande balzo renziano in avanti c’è davvero qualche problema serio. Non tanto di marketing, quando si opera a reti unificate tutto è possibile, ma piuttosto nel trovare un serio punto di contatto col mondo esterno. Ma anche se questo 0,3 si confermasse, se diventasse un 0,5 come previsto da Bankitalia a inizio anno, invitiamo a guardare questo grafico.

Sempre su base dati Bankitalia vediamo i principali componenti della domanda che contribuiscono alla formazione del PIL. Come vediamo, l’andamento dei consumi delle famiglie (linea rossa) segue più o meno l’andamento del PIL. Ma è l’impennarsi della linea verde (esportazioni) e il crollo di quella gialla (investimenti fissi lordi) a spiegarci che la vera tigre di carta, tanto per usare un linguaggio maoista, è il balzo in avanti renziano. In poche parole, il calo dell’euro, negli ultimi mesi poi quasi un terzo, e la riduzione dei salari sono alla base della crescita di questo genere di PIL. Quindi fattori esterni, andamento del cambio, e sfruttamento del lavoro interno. Tutto effimero perché, come vediamo, dal 2007 gli investimenti fissi lordi sono letteralmente crollati (assieme alla produzione). E se gli investimenti sono al minimo è difficile prevedere un reale futuro per il Pil italiano. Non a caso quindi vediamo outlook sull’economia italiana che prevedono stagnazione fino al 2050.

Renzi va quindi avanti con la sua retorica del balzo in avanti, con la lotta ai suoi quattro flagelli (quelli renziani sono: diritto ad un salario vero, all’assistenza sociale, ad una scuola pubblica ed una reale democrazia). Eppure Le Monde su dati simili, parlando del segno più dell’economia francese, parla di crescita improbabile. Anche quei bolscevichi del Sole 24 ore hanno parlato di disoccupazione come vero problema che si annida tra le pieghe di questo genere di PIL.

Il punto è che, a differenza di quanto avvenuto nella storia dell’URSS o della Cina, è che non ci sono ripensamenti, dibattiti accesi, convulsioni sociali tali da fermare o correggere, se pur in modo controverso, le politiche in corso.

Qualsiasi cosa accada il renzismo reale, come le subideologie liberiste italiane che l’hanno preceduto, reciterà le stesse prognosi di liberalizzazione e di privatizzazioni. Nell’ideologia del libero mercato l’ipotesi che il mondo esterno sia diverso da come lo si immagina non è contemplata. E allora via con la lotta ai quattro flagelli dell’Italia contemporanea, magnificando le lodi del balzo in avanti di qualche decimo di punto.

Redazione, 13 maggio 2015

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