Una delle ultime “giustificazioni” ideologiche è quella del cosiddetto “scontro di civiltà”, qualcosa che secondo alcuni dimostrerebbe l’inesistenza delle classi: invece bisogna ribadirlo, lo scontro è NELLA civiltà globale del capitalismo. E speriamo di poter mostrare, con questo come attraverso i contributi segnalati in fondo, che anche nella galassia islamica, come in Medio Oriente, esistono i padroni, i subalterni e lo scontro tra interessi contrapposti. In altre parole, il capitalismo!
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Da più di trent’anni si sta diffondendo
nei paesi islamici un sistema finanziario alternativo a quello
convenzionale (e di origine soprattutto occidentale), perché improntato
su alcuni precetti religiosi. Si tratta, in particolare, del divieto
d’interesse (ribā) nelle transazioni finanziarie e il divieto d’investimento in attività soggette a eccesso di incertezza ed ambiguità (gharār) ed in quelle che implichino il ricorso alla speculazione e all’azzardo (maysir). Ciò non significa che il capitale prestato non debba percepire alcuna remunerazione; solo che essa è condizionata.
Secondo una specifica interpretazione dei precetti del Corano e la sunna
del Profeta Muhammad, il denaro non può generare altro denaro. Per
crescere deve essere investito in attività concrete e produttive. Uno
dei pilastri fondamentali della finanza islamica è dunque il divieto di
ottenere il pagamento di interessi fissi o predeterminati sui fondi
prestati.
Il Corano condanna tanto l’usura quanto l’alea, ma anche i guadagni
smisurati, e naturalmente le frodi. Considera invece l’elemosina, sia
quella spontanea (sadaqa) che istituzionalizzata (zakāt),
una pratica fondamentale di ogni buon credente. Nella tradizione
islamica, infatti, il profitto e l’accumulo della ricchezza trovano
legittimazione, di fronte a Dio, soltanto attraverso l’attività operosa
dell’uomo: il lavoro legittima il profitto e l’accrescimento del
capitale.
Con riferimento alle obbligazioni pecuniarie il termine ribā,
cioè “usura”, comprende nella sua accezione più ampia sia il lucro
prettamente usurario e qualsiasi aumento pattuito del capitale dato in
mutuo, sia ogni sorta di “ingiustificato” arricchimento.
Lo scopo dei suddetti precetti islamici è quello di rendere il fedele musulmano, membro di una società islamica, una sorta di homo oeconomicus islamicus, socialmente giusto e altruista – dunque in contrapposizione con la teoria e la prassi economica moderna.
È importante la distinzione tra le due diverse forme di carità: la prima è volontaria (sadaqa) e nasce dalla generosità del credente; la seconda è istituzionalizzata (zakāt), e grazie all’elaborazione giurisprudenziale è divenuta una vera e propria tassazione. La zakāt costituisce uno dei cinque pilastri dell’Islam: la shari’a
impone a ogni musulmano con capacità contributiva di pagare un’imposta a
titolo di assistenza pubblica. In altre parole si tratta dunque di una
specie d’imposta prelevata dal reddito dei musulmani benestanti e
destinata alla realizzazione di opere pubbliche a favore delle comunità
meno abbienti (poveri e diseredati).
In seno alla comunità dei teorici della finanza islamica, vi è però un
vasto consenso sul fatto che la tradizione islamica non contesti il
principio della remunerazione del denaro dato in prestito (senza il
quale il sistema bancario non sopravvivrebbe) ma rifiuti soltanto
l’aspetto predeterminato dell’interesse. È cioè accettato il fatto che
non ci può essere guadagno senza un margine di rischio, e chiunque non
voglia assumere rischi ha diritto solo alla restituzione del capitale
prestato, nulla di più. Si è dunque verificata la necessità per i
giuristi e gli economisti musulmani di definire un approccio alternativo
all’interesse per garantire un rapporto rischio-rendimento più equo ma
anche efficiente. Questo principio, che risale ai primi tempi
dell’Islam, è un sistema equity-based nel quale l’unica forma di remunerazione possibile sono i profitti derivanti dagli investimenti (ex post), e non un ammontare prefissato (ex ante).
Il principio di partecipazione ai profitti e alle perdite implica un
vero e proprio rapporto di cooperazione tra il finanziatore e
l’investitore, in opposizione al principio di massimizzazione dei
profitti e di minimizzazione delle perdite che caratterizza il sistema
finanziario convenzionale – nel quale si opera una differenziazione del
rischio piuttosto che una condivisione.
Questi principi/divieti, adottati dalle banche e dagli istituti
finanziari islamici, che realizzano prodotti bancari-finanziari conformi
ai precetti del Corano, consentono al sistema finanziario islamico di
non allontanarsi dall’economia reale e di tutelare soprattutto i piccoli
investitori e i risparmiatori.
Nei paesi islamici, un vero e proprio sistema bancario finanziario
nacque alla fine del XIX secolo, in seguito al processo di
decolonizzazione avvenuto nel secondo dopoguerra, quando le principali
banche dei paesi occidentali cominciarono ad aprire filiali nei paesi
colonizzati. La scoperta d’importanti giacimenti di petrolio, negli anni
Sessanta e Settanta del secolo scorso, incoraggiò la crescita dei
rapporti commerciali internazionali e rese disponibili ingenti quantità
di denaro.
Parte della ricchezza prodotta dal petrolio venne usata proprio per
gettare le basi di un nuovo tipo di istituti che rispettassero la shari’a. Attorno al 1975 nacquero così le prime banche private islamiche, la Dubai Islamic Bank, e la Banca di sviluppo islamico (Islamic Development Bank – IDB). La
IDB, la cui creazione fu concordata nel dicembre del 1973 nell’ambito
della prima Conferenza dei ministri delle finanze dell’Organizzazione
della Conferenza Islamica (OIC), ha come scopo fondamentale sostenere e
promuovere lo sviluppo socio-economico degli Stati membri
dell’Organizzazione, ma anche dei paesi dove vivono minoranze musulmane.
La Banca non può applicare tassi di interesse o commissioni. Inoltre i
prestiti concessi non possono finanziare beni e servizi contrari ai
precetti islamici e facenti parte di settori considerati illeciti – come
il commercio di alcolici, di carne non macellata ritualmente o ancora
di prodotti contrari alla morale islamica. L’IDB ha la sua sede
principale a Gedda, in Arabia Saudita, e conta ad oggi cinquanta paesi
membri.
Le cosiddette primavere arabe, con l’emergere dei partiti islamisti
legati, più o meno direttamente, alla Fratellanza Musulmana, sembrava
aver aperto un nuovo scenario per gli istituti bancari islamici. In
Tunisia, ad esempio, paese considerato tra i più “laici” dell’area MENA,
il partito Al-Nahda ha lanciato una campagna per integrare il sistema
bancario nazionale con quello islamico. Ciò avrebbe portato, secondo la leadership
islamista, all’aumento del volume degli IDE (Investimenti Diretti
Esteri) stimolati dai fondi sovrani di paesi come il Qatar e l’Arabia
Saudita. Un processo analogo era in corso in Egitto, prima della
deposizione del presidente Morsi nell’estate del 2013.
L’attuale battuta d’arresto del cosiddetto Islam politico – quantomeno
come movimento rappresentato da partiti che si affermano per via
elettorale – ha però ridotto la portata del fenomeno, che al momento
rimane di grande rilievo nell’area del Golfo e in Turchia.
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