L'Unione Europea ha perso quasi tutto il suo appeal, ma l'assenza di alternative blocca la ricerca di una via d'uscita. È come se la popolazione italiana si stesse svegliando da un sogno che c'entra assai poco con la realtà brutale di tutti i giorni, ma resta incerta sulla direzione da prendere.
E per gli europeisti che si ritengono “di sinistra” il gioco si fa teso e tetro. Stavolta è toccato alla Cgil mettere nero su bianco i risultati di uno studio che evidentemente si sperava producesse risultati più gestibili. Non si spiega infatti in altro modo la scelta di Ventotene come location per presentarlo, a meno di non voler volare nei sogni utopici della “riscoperta dello spirito dei padri fondatori” del manifesto (Altiero Spinelli, ecc), o stare terra terra (è quasi agosto, meglio farle al mare certe riflessioni).
Sta di fatto che la massa di grafici messa in mostra dal rapporto "Gli italiani e l'Europa" non lascia spazio a grandi fantasie europeiste, complice forse anche il mese orribile in cui i dati sono stati raccolti: la prima metà del mese corrente, a cavallo tra il referendum di Atene e la “capriola” di Tsipras, imposta da un'Unione Europea in versione panzerdivisionen.
Ne viene infatti fuori una sfiducia (molto) crescente verso tutte le cosiddette istituzioni europee, più alta là dove la crisi picchia più duro e, anche per questo, il volto della Ue risulta nel migliore dei casi estraneo: il Mezzogiorno e le Isole. Ma in generale la maggioranza vede “negativamente” l'umanità disumana che abita tra Bruxelles, Francoforte e Berlino. Il 55%, molto più del 50,7 di un anno e mezzo fa.
Anche la disaggregazione per fasce di età ha la sua importanza: a nutrire qualche residua speranza sono i giovani sotto i 29 anni, quelli che ancora non sono costretti a farsi i conti in tasca con le “riforme strutturali” e magari vedono la questione dalla visuale ristretta della libertà di movimento, viaggio, Erasmus e via girovagando. Ma non appena si arriva a quelli che devono sostentarsi completamente da soli – i 30-44enni – ecco che soltanto il 38% dà un giudizio positivo sull'Unione.
E non va meglio neanche all'altro pilastro della “narrazione” che sosteneva l'immaginario positivo, ossia la “stabilità economica” che la Ue avrebbe dovuto garantire: il 66,5% ritiene che far parte dell'Ue non aiuta questo paese a star meglio. Stessa percentuale anche per l'euro. E crolla anche l'idea di “Europa” come assicurazione contro i rischi futuri.
Del resto, se solo il 14,9% ha potuto verificare un miglioramento delle condizioni di vita dopo l'ingresso nell'eurozona (con l'82,7% di bestemmie contro), è chiaro che le narrazioni fanno sempre meno presa.
Cambia dunque anche il parere circa la distribuzione dei poteri tra Ue e stato nazionale: il 49,6% è arrivato a considerare la Ue come dotata di “troppi poteri”, che andrebbero quindi ridimensionati.
I sondaggi, si sa, brutalizzano il pensiero riducendo le possibili risposte a dei semplici sì o no a quel che pensa il soddaggista. E quindi il cumulo di singole risposte negative non si traduce ancora in una risposta positiva e alternativa. L'orizzonte europeo rime insomma ancora l'unico pensabile (potremmo ormai chiamarlo “la trappola Syriza”, visto dove ha condotto il governo ellenico, nato esattamente con le stesse contraddizioni: no all'austerità, ma dentro la Ue), e quindi l'uscita dall'Unione sembra attraente solo per il 25%.
A noi sembra evidente che questi dati riflettano una difficoltà reale nel prendere piena consapevolezza della gabbia in cui siamo stati infilati a forza di promesse. Anche perché le possibili alternative appaiono ancora poco praticabili o comunque molto complesse (molto più di una domanda da sondaggio). L'uscita unilaterale dall'Unione e dall'euro, a bocce ferme (ossia senza una situazione di crisi generalizzata dell'architettura continentale, con diversi paesi in ebollizione sociale), appare ancora come un salto nel vuoto. E converrà ricordare che così appare, ancora oggi, alla maggioranza di quel popolo che più sta pagando il prezzo della colonizzazione “europea”.
Cominciare a ragionare del “piano B” – pubblicamente, in mezzo alla gente – è necessario per qualunque soggetto politico e sociale che pretenda realmente la fine delle politiche di austerità. Chi non ne vuole nemmeno sentir parlare non avrà neanche la possibilità di farsi ascoltare.
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