di Mario Lombardo
Con un discorso
al quartier generale dell’Unione Africana nella capitale dell’Etiopia,
Addis Abeba, martedì si è chiuso il viaggio in Africa orientale del
presidente americano, Barack Obama. Prima dell’intervento che ha chiuso
l’attesa trasferta, l’inquilino della Casa Bianca aveva visitato il
Kenya, paese natale del padre, e successivamente incontrato il primo
ministro etiope, Hailemariam Desalegn.
Il punto centrale
dell’intervento di martedì è stato l’invito ai leader africani a
rispettare le norme costituzionali dei loro paesi e a farsi da parte una
volta esaurito il mandato assegnato dagli elettori. Il riferimento
immediato è stato il caso del Burundi, dove una grave crisi politica è
scoppiata lo scorso mese di aprile in seguito alla decisione del
presidente, Pierre Nkurunziza, di candidarsi alla guida del paese per la
terza volta.
La mossa di Nkurunziza aveva provocato accese
proteste popolari e un tentativo di colpo di stato da parte di una
sezione delle forze armate, dal momento che la Costituzione del Burundi
prevede un massimo di due mandati. Nonostante le pressioni
internazionali, il presidente ha però partecipato al voto di settimana
scorsa, conquistando un nuovo mandato.
Nel discorso di Obama non
sono inoltre mancati i riferimenti ai diritti umani, alla corruzione che
pervade i sistemi di governo africani e alla necessità di combatterla,
principalmente per creare un clima favorevole agli investimenti
internazionali.
Nelle ore precedenti l’apparizione alla sede
dell’Unione Africana, invece, il presidente USA aveva visitato una
fabbrica etiope che opera nel settore alimentare, dove ha presentato una
serie di iniziative del suo governo destinate teoricamente ad alleviare
la fame nel continente.
Piuttosto controverso era stato poi
l’incontro con il premier etiope, il cui governo - definito da Obama
come “democraticamente eletto” - il presidente USA ha ringraziato per
essere un partner fidato nella “guerra al terrore”. Le parole di Obama
hanno suscitato parecchie critiche anche tra gli stessi sostenitori
della sua amministrazione.
Il partito al potere in Etiopia -
Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo (EPRDF) - nel mese di
maggio aveva conquistato ogni singolo seggio in palio nelle elezioni
parlamentari, universalmente considerate irregolari. Ben poco
democratico è anche il sistema politico e la società dell’Etiopia,
caratterizzati dalla regolare repressione degli oppositori e dalla
censura dei mezzi di informazione indipendenti.
Obama
ha comunque provato a lanciare qualche critica benevola a Desalegn,
esortando il suo regime a tollerare il dissenso, ammettendo che in
Etiopia resta ancora “parecchio lavoro da fare” sul fronte democratico
ma riconoscendo le sfide e le difficoltà che questo paese deve
affrontare dopo un lungo periodo di dittatura.
Al di là delle
diatribe sulle questioni dei diritti umani e delle pressioni che Obama
ha fatto o avrebbe potuto fare ai leader di Kenya ed Etiopia, entrambi i
paesi visitati in questi giorni rappresentano partner strategici
importanti degli Stati Uniti in un’area cruciale del continente
africano.
I temi della sicurezza e della lotta al terrorismo
islamista sono stati ampiamente discussi sui media di tutto il mondo,
con al centro l’impegno dell’amministrazione Obama a sostenere lo sforzo
di Kenya ed Etiopia soprattutto contro le milizie di al-Shabaab in
Somalia.
Un’altra questione sull’agenda di Obama nel corso della
visita di cinque giorni in Africa è stata poi la guerra civile che da
oltre un anno sta insanguinando il Sudan del Sud, paese creato pochi
anni fa su iniziativa degli Stati Uniti per indebolire il Sudan,
importante produttore di petrolio il cui regime ha stabilito profondi
legami con la Cina.
Il conflitto in corso ha provocato una vera
catastrofe umanitaria e Obama ha cercato di rinvigorire gli sforzi
diplomatici per una soluzione pacifica, mettendo però in guardia fin
dall’inizio circa l’improbabilità di giungere a risultati concreti
durante la sua presenza in Africa.
Se la visita dei giorni scorsi
è stata promossa sui giornali ufficiali come una sorta di ritorno a
casa per Obama o, tutt’al più, un tentativo disinteressato di
consolidare la guerra al terrorismo, quest’ultimo aspetto nasconde in
realtà ancora una volta la volontà americana di mantenere ed espandere
il controllo su un’area strategicamente importante del globo.
I
paesi dell’Africa orientale rappresentano infatti il punto d’incontro
tra una vasta area ricca di risorse del sottosuolo e vie d’acqua
attraversate da rotte commerciali vitali per l’economia mondiale, in
particolare sul fronte delle forniture petrolifere.
Sia in questa
regione che, più in generale, nell’intera Africa, gli Stati Uniti
stanno cercando infine di contrastare l’espansione della Cina, la quale
ha da tempo abbondantemente superato gli USA come primo partner
commerciale del continente. I segni della presenza cinese in Africa sono
ormai ovunque, inclusa la stessa Etiopia, e dal punto di vista
economico è difficile pensare che Washington possa scalzare Pechino nel
breve o medio periodo.
Per questa ragione, in Africa come
altrove, gli Stati Uniti cercano di compensare l’influenza e il peso
economico perduti a favore della Cina incrementando la propria presenza
militare, giustificata da necessità di “stabilizzazione” e dall’infinita
“guerra al terrore”.
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