Il 20 luglio riaperte le ambasciate di Cuba e Stati Uniti, sventola la bandiera cubana a Washington. La gioia dell’ambasciatore che gettò la spugna per ultimo. E che dal ’61 ripete: l’embargo è una sciocchezza.
Roberto Zanini, tratto da Il Manifesto del 23 lug 15
Nel 1961, Wayne S. Smith aveva 29 anni, era terzo segretario dell’ambasciata americana a Cuba e sotto le finestre del suo ufficio all’Avana sfilavano i barbudos scesi dalla Sierra Maestra. Poi tutto finì: ambasciata chiusa, personale infilato in un ferry e rimpatriato, l’inizio di una guerra nella guerra che sarebbe durata più di mezzo secolo. Fatta di feroci sanzioni economiche, atti di terrorismo, violenti conflitti politici e ancor più violente operazioni coperte, per recuperare quello che la dottrina Monroe definiva “il cortile di casa”.
E per oltre mezzo secolo, Wayne Smith si è occupato dell’Avana: da diplomatico, da accademico, da intellettuale, in ogni caso da voce ostinata e contraria. Lo hanno snobbato per anni, isolato a predicare contro l’embargo, costretto a lasciare il dipartimento di stato, “tanto Cuba cede”, “tanto Fidel Castro non dura”. Il 20 luglio 2015 è stato il giorno della sua rivincita: riaperte le ambasciate negli Stati Uniti e a Cuba, sventola la bandiera cubana a Washington e i media all’improvviso lo cercano e lo citano, da Time alla Cnn, dal Miami Herald ai talk show radiofonici. Fino al manifesto.
Nel 1961, quando l’ambasciata americana venne chiusa, avevate idea che sarebbe durata più di mezzo secolo?
No, assolutamente no, pensavamo un paio d’anni, massimo tre.
Era l’opinione comune o la sua?
Beh, due o tre anni, anch’io la pensavo così. Credo che nessuno, ma proprio nessuno, si sarebbe aspettato che questa cosa durasse più di cinquant’anni.
Le relazioni Usa-Cuba sono partite dal punto più basso. Ma nel 1977 Jimmy Carter fece un tentativo, spedendo all’Avana proprio lei. Che cosa successe allora?
Carter voleva davvero migliorare le relazioni con Cuba, iniziare un dialogo, e aprì una sezione di interessi all’Avana. All’inizio io ero il secondo, nel 1979 diventai il capo. Carter era certamente interessato al dialogo, voleva aprire una relazione, ma altri nella sua amministrazione non lo erano per niente.
Chi?
Zbigniew Brzezinski, il consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale. Semplicemente non era interessato al dialogo con Cuba, e i cubani non avevano alcuna intenzione di sganciarsi dall’Africa, che era una delle condizioni poste (erano in Angola, in Namibia, combattevano contro il Sudafrica razzista, ndr). Quel dialogo non è andato davvero da nessuna parte, poi venne eletto presidente Ronald Reagan, che non aveva la minima intenzione di migliorare le relazioni con Cuba, anzi. Da quel momento, per anni e anni, la politica americana fu di cercare di isolare Cuba, non di cercare il dialogo.
Non ha avuto molto successo, questa politica: a finire isolati sono stati gli Usa.
Proprio a causa del rifiuto di impegnarsi con Cuba io ho lasciato il dipartimento di stato. Con l’Avana avevamo serie differenze, naturalmente, ma pensavo che il dialogo fosse meglio dell’embargo continuato. Così lasciai il servizio estero, diventai professore, mi unii al Centre for international policy e dal 1982, per anni e anni - quanti! - ho cercato di promuovere una politica più sensibile nei confronti di Cuba. Fino al 2014, sotto la presidenza Obama. Obama ha visto i vantaggi nell’impegno con Cuba, nel cercare il dialogo, e alla fine abbiamo mosso un passo, grazie agli dei.
Molto alla fine, è il caso di dire.
Adesso abbiamo legami diplomatici, l’inizio di un rapporto. Mi lasci dire che c’è ancora tantissimo da fare: l’embargo è ancora in piedi e può essere rimosso solo dal congresso, cosa che prenderà molto tempo, e non solo, abbiamo ancora la base navale di Guantanamo, abbiamo il conflitto per le compensazioni…
Le compensazioni, cioè le rivendicazioni di chi venne espropriato dalla rivoluzione, e i danni provocati dall’embargo: sulla carta sono decine di miliardi di dollari, sono un ostacolo serio?
Le rivendicazioni sono lì da anni e sono un tema complicatissimo, voglio dire che abbiamo ogni sorta di problemi ma almeno abbiamo cominciato a parlarne, ad affrontare gli argomenti. Ed è un un grande passo avanti.
In questi giorni lei è citato da Time, Cnn, Miami Herald e un’altra sfilza di media: com’è la rivincita dopo cinquant’anni?
Lo devo proprio dire: fa molto, molto piacere. Dopo tutti questi anni e questi presidenti, alla fine stiamo facendo ciò che predicavo di fare da mezzo secolo.
Per i presidenti repubblicani si capisce, ma Bill Clinton? Perché un leader democratico non ha fatto nulla su questo argomento?
Perché Cuba era un’isoletta e noi una grande potenza, alla fine si sarebbe arresa e avrebbe fatto quel che volevamo noi. E hanno atteso, atteso e atteso... ma Cuba non cedeva, e tutti stabilivano relazioni tranne noi. La ragione principale dell’impegno al dialogo di Obama è che Cuba era diventata un’enorme fonte di imbarazzo. Quelli isolati eravamo noi: nel 2014 ogni paese in America ormai aveva relazioni commerciali con Cuba, noi eravamo il solo paese a non averne. Qualsiasi summit sarebbe stato talmente imbarazzante che Obama ha detto ok, via al dialogo. Grazie agli dei.
All’inizio, dopo l’anatema americano, solo il Messico aveva mantenuto legami con L’Avana.
Il Messico l’abbiamo indicato noi. Avevamo bisogno di un paese che avesse una linea di comunicazione con Cuba e ci siamo appoggiati al Messico, per anni e anni.
Cosa pensa di Raul Castro? Obama è Obama, ma Raul? Grigio burocrate, “fratello di” o vero uomo di stato?
Raul Castro è più pragmatico del fratello, un presidente più pratico. Ma nel 2018 i Castro dovrebbero lasciare il potere, almeno è quel che hanno detto.
Qualche speranza di vedere l’embargo rimosso entro quella data?
Non credo, serve tempo. E il congresso è controllato dai repubblicani.
Cuba diventa una questione di politica interna?
E’ così.
La comunità cubana di Miami? Un tempo era potentissima, e molto disinvolta nell’uso del potere, del denaro, persino del terrore. Quanto conta oggi?
I sondaggi indicano che oggi la maggioranza dei cubano-americani di Miami è a favore dell’impegno con Cuba. Qualche anno fa era il contrario, ma oggi è così. E molti cubani americani hanno cominciato a viaggiare a Cuba, che è un’ottima cosa.
Gli Stati Uniti giocano davvero pulito, o c’è il rischio di qualche colpo di coda sul sentiero della normalizzazione dei rapporti? I problemi di politica interna possono superare il tema dell’equilibrio internazionale?
Certamente c’è un dato: è difficile per il presidente muoversi in avanti e migliorare le relazioni con Cuba, il congresso è da considerare e molti deputati sono tutt’altro che entusiasti dell’argomento. Ma il primo grande passo è stato fatto.
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