La teoria economica l'aveva stabilito da un pezzo, facendo gli esempi dell'unità d'Italia, dell'unificazione tedesca o della "dollarizzazione" di alcuni paesi latino-americani. Se adotti la stessa moneta forte di un paese forte, ma sei un paese relativamente più arretrato, all'inizio ti sembrerà un bengodi, poi - neanche tanto lentamente - si trasformerà in un incubo. I pezzi migliori della tua economia perderanno competitività, cercherai di recuperarla comprimendo i salari, tagliando la spesa sociale, ecc. Ma così facendo ridurrai drasticamente anche il mercato interno, quello dei consumi di massa; e quindi metterai in crisi anche le industrie meno avanzate, che non vederanno più come prima. A quel punto le teste migliori cercheranno un'occupazione altrove (nelle aree forti, ovviamente) e tu perderai anche la possibilità di riprenderti grazie alle nuove generazioni.
Ma se a dirlo è la Bce viene voglia di mettergli le mani addosso...
Eppure è proprio quello che ha scritto - forse involontariamente - nel suo solito Bollettino:
L'Italia è il paese che «ha registrato i risultati peggiori» sulla crescita del Pil procapite tra quelli che hanno adottato l'euro fin dall'inizio. La Bce spiega che la «convergenza» qui esaminata è quella «reale», in pratica «quando il Pil pro capite delle economie a più basso reddito converge in maniera durevole verso quello dei paesi con redditi più alti».
«Tra i paesi ad alto reddito, l'Italia ha registrato una crescita inferiore alla media dell'area dell'euro quasi per l'intero periodo generando un'aumentata divergenza» con le economia dei paesi più forti. E il concetto viene addirittura ripetuto con altre parole: «l'Italia, inizialmente un paese a più alto reddito, ha registrato i risultati peggiori e questo suggerisce una divergenza sostanziale rispetto al gruppo con redditi elevati».
Tra il 1999 e il 2014, per quanto riguarda il reddito pro capite, «Di fatto, se si considera il periodo nel suo insieme, esistono alcuni riscontri di una divergenza tra i paesi che hanno adottato per primi la moneta unica in quanto, nell'arco di 15 anni, diverse economie con redditi relativamente bassi hanno mantenuto (Spagna e Portogallo) o persino accresciuto (Grecia) il divario di reddito rispetto alla media».
E la Bce non riesce a spiegarsi perché all'inizio dell'unione monetaria «molti osservatori si aspettavano che la maggiore integrazione monetaria e finanziaria imprimesse un'accelerazione al processo di convergenza reale». Invece «il finanziamento privato esterno ha cominciato a ridursi con lo scoppio della crisi finanziaria mondiale e ha continuato a diminuire sostanzialmente nel periodo successivo». Ma guarda un po' come funziona l'economia capitalistica... Ad averlo saputo prima, magari...
Naturalmente una spiegazione provano a darsela lo stesso, individuando «l'effetto congiunto di tre fattori».
A) «Le condizioni istituzionali in alcuni paesi non erano favorevoli all'innovazione e alla crescita sottostante della produttività». Insomma, non avevano le Costituzioni adatte a digerire questa novità che toglieva di mano la principale leva di governo di un paese.
B) «Le rigidità strutturali e la scarsa concorrenza hanno contribuito a determinare distorsioni nell'allocazione del capitale e questo ha a sua volta impedito al potenziale di offerta dell'economia di allinearsi alla domanda». Tradotto: dovevano fare le "riforme strutturali" ancora prima di entrare nell'euro, così le cose sarebbe andate secondo le previsioni (forse), e soprattutto non ci sarebbe ora così tanta gente incazzata con la moneta unica e l'Unione Europea per essere stata spinta sul lastrico.
C) «Il brusco calo dei tassi d'interesse reali ha favorito una forte crescita del credito e ha fatto salire la domanda, dando origine ad aspettative erronee sui redditi futuri». Il che mette in discussione radicalmente proprio quello che era stato fin qui riconosciuto come il principale merito della Bce, ovvero il saper adottare tempestivamente "misure anche non convenzionali", come il quantitative easing. Che però genera distorsione e "attese sbagliate"...
Divertente, per concludere, l'attesa che l'eurozona possa allargarsi: «in prospettiva, è atteso un ulteriore ampliamento».
Proprio stamattina IlSole24Ore ha pubblicato una serie di robusti "no" all'ingresso nell'euro dei paesi dell'Est che dovevano avvicinarvisi. Leggiamo:
Polonia
«Non bisogna correre quando c'è ancora fumo che arriva da una casa che stava bruciando. Non è sicuro». Ricorre alla metafora dell'incendio Marek Belka, governatore della Banca centrale di Polonia nonché ex primo ministro ed ex direttore del dipartimento europeo del Fmi, intervistato pochi giorni fa dal quotidiano britannico Telegraph. E per essere ancora più chiaro esce dalla metafora e ribadisce: «Finché l'eurozona ha problemi con i suoi stessi membri, non vi aspettiate una nostra adesione entusiastica». Punto.
Alla domanda di cosa pensino i polacchi dell'euro, Belka risponde che «di sicuro la situazione greca non ha aumentato la fiducia nella moneta unica e se la Polonia politicamente andrà a destra l'entusiasmo per l'euro diventerà ancora più flebile».
Riflessioni perfettamente in linea con quelle del nuovo primo ministro Ewa Kopacz, in carica dallo scorso settembre al posto di Donald Tusk: «Prima di chiederci quando entreremo nell'euro – aveva detto Kopacz – dovremmo farci un'altra domanda: qual è la situazione dell'eurozona e dove sta andando?»
Secondo l'ultimo sondaggio di Eurobarometro – che risale all'aprile scorso, quindi prima della crisi greca – il 53% dei polacchi è contrario all'adozione della moneta unica, mentre il 44% è a favore (era il 45% l'anno prima). Nel 2012, nel pieno dell'eurocrisi, il 70% dei polacchi era convinto che l'adozione della moneta unica sarebbe stata negativa per l'economia polacca.
Repubblica Ceca
Anche Praga, che con un rapporto debito pubblico-Pil circa al 50% avrebbe tutte le carte in regola per entrare nell'eurozona, si guarda bene dall'abbandonare la corona ceca. I sondaggi sono impietosi: sempre secondo l'Eurobarometro, nell'aprile scorso il 70% dei cechi era contrario alla moneta unica. Il referendum sull'ingresso nell'eurozona, caldeggiato dal presidente Milos Zeman, viene continuamente rimandato.
E nel dicembre scorso, il Governo e la Banca centrale ceca sono direttamente scesi in campo dichiarando che è meglio non definire alcuna data per entrare nell'euro. Un contesto di estrema diffidenza che la crisi greca ha contribuito a peggiorare ulteriormente.
Ungheria
Alla ricerca di stabilità e benessere, Budapest stava lavorando sodo per entrare nell'eurozona fin dal lontano 2003, con l'obiettivo di adottare la moneta unica nel 2007 o nel 2008. Ma la crisi finanziaria mondiale post Lehman e poi quella del debito sovrano europeo hanno spinto gli ungheresi a restare abbracciati al fiorino, senza indicare una data di adozione dell'euro, nemmeno lontanissima.
Nell'aprile 2013 Viktor Orban, il primo ministro ultraconservatore che ha trionfato alle elezioni di cinque anni fa, ha dichiarato che l'Ungheria avrebbe adottato l'euro quando il Pil procapite ungherese (a parità di potere d'acquisto) sarebbe stato pari al 90% della media dell'eurozona. Il che, stando alle attuali proiezioni di crescita del reddito ungherese, dovrebbe avvenire nel lontano 2056. Sempre che allora ci sia ancora l'euro che conosciamo oggi.
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