Il degrado cittadino è tanto palese quanto la ritrosia della sinistra radicale nel farci i conti. Da mesi sopravvive un Comune che non ha più ragion d’essere; da anni la città vive un declino sociale che non ha pari nella storia recente della città. Un declino che è stato appaltato alla narrazione di “Romafaschifo”, alle inchieste del Corriere, alle indignazioni dei fogli del regime palazzinaro Messaggero e Il Tempo, alle piccole costanti vandee quotidiane di una plebe romana votata alla reazione contro il bersaglio facile, immediato, che sia l’immigrato o l’autista Atac di turno. Tutti parlano, per lo più a sproposito, sentono in dovere di dire la propria sul tragico declino romano, tranne la sinistra, che sul tema riesce ad assumere un atteggiamento di altezzosa distanza culturale davvero inspiegabile, una dichiarazione di resa culturale e politica anche qui senza precedenti. E non parliamo dell’a-sinistra delle cosche politiche cittadine, quella lottizzata del Pd o di Sel, della fu Rifondazione e altri piccoli e grandi gruppi di potere territoriale, ma della nostra sinistra, quella dei movimenti sociali, dei collettivi politici, dei sindacati conflittuali, dei centri sociali. Le denunce di “Romafaschifo”? Tutta melma reazionaria; gli autobus che non passano? Non è un problema che ci riguarda; la sporcizia invadente? Sono ben altri i problemi della città; il traffico caotico ad ogni ora del giorno? Comprati la bici. E così via, voltandosi dall’altra parte pur di non fare i conti con la propria incapacità di esprimere un punto di vista generale sulle cose che sappia affrontare anche questi temi. Eppure mai come oggi ci sarebbe lo spazio per esprimere un’opzione di civiltà, un punto di vista capace di aggregare consensi attorno all’unico dato di fatto evidente e inaggirabile: Roma è invivibile, si è rapidamente trasformata in un pezzo di terzo mondo nel cuore dell’Occidente, con un centro appaltato a Disneyland per turisti della media borghesia globale, e una sterminata periferia ingovernabile e di fatto lasciata a se stessa. Non serve cedere al liberismo culturale di “Romafaschifo” per accorgersene, basta uscire di casa la mattina, guardare la città con gli occhi del normale lavoratore che ogni giorno è costretto a subire questo declino a cui assiste inerme o aggregandosi alla reazione plebea di chi vede nell’autista dell’autobus, nell’infermiere ospedaliero, nell’operatore dell’Ama, nel migrante senza lavoro, l’origine e la soluzione di tutti i problemi romani.
Il fatto che il presupposto politico da cui muovono le reazioni al degrado permanente sia politicamente di destra, che miri alla dismissione incontrollata del settore pubblico, alla svendita generalizzata degli ultimi scampoli di controllo comunale ai privati (a Roma leggasi palazzinari), che insomma rappresenti l’avallo culturale alle politiche neoliberiste, non può farci concludere che il problema non esista o non vada affrontato. Per farlo servirebbe una cultura politica capace di rappresentare un’alternativa credibile, un punto di vista generale, capace non solo di parlare al proprio particolare, ma alla complessità della situazione. Una cultura politica che sappia dire che i muri puliti sono migliori dei muri imputriditi dal lerciume generalizzato; che le strade dissestate sono un problema di tutti ma soprattutto un problema di classe, che riguarda la classe, non i ricchi dall’alto dei loro Suv anti-crateri; che la qualità del trasporto pubblico romano non ha paragoni nel resto d’Europa. E via dicendo. In assenza di questo, la sintesi e dunque il consenso verrà strutturalmente lasciato alle culture politiche di destra, privatizzanti, palazzinare. Nel migliore dei casi al Movimento 5 Stelle, che infatti, senza fatica, riesce ad aggregare consensi semplicemente rilasciando interviste; nel peggiore, al palazzinaro Marchini, pietra tombale di ogni ipotesi di rinascita cittadina.
Lo smascheramento giudiziario di Mafia capitale con le sue due ondate di arresti, perquisizioni, indagini, commissariamenti, non ha fatto altro che certificare quello che i movimenti sociali della città ripetono da sempre: non esistono differenze politiche nella gestione del potere cittadino, ma un unico grande blocco di potere avvinghiato agli appalti pubblici, rotto ad ogni compromesso illegale, controllato dal potere palazzinaro. Una volta di più, la conferma che avere ragione, in politica, non serve a niente. La resa di fronte agli eventi ha portato le ragioni dei movimenti all’afonia e vento alle vele della reazione politica, nel paradossale vortice che accusa Marino di non aver fatto proprio ciò che in questo momento andrebbe evitato come la peste: privatizzare tutto il privatizzabile svendendo patrimonio pubblico ai palazzinari. Serviva una presa di parola che non c’è stata, un assedio politico che cacciasse Marino da sinistra, a prescindere da chi ne avrebbe preso il posto. Perché anche in questa fase, in cui il minoritarismo congenito dei movimenti non consente intestazioni di rappresentanza o ipotesi elettorali di alcun tipo, la direzione politica della protesta rimane importante. Un sindaco disarcionato dalle inchieste di Rizzo e Stella sul Corriere non è la stessa cosa di uno sconfitto da una protesta di sinistra. E il terreno politico del successore sarà a suo volta diverso, qualunque esso sia. Ecco perché Marino sarà comunque destinato alla sconfitta e alla resa, a favore di un successore che dovrà mettere in pratica il programma minimo liberista, non quello minimo della protesta.
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