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28/07/2015

Bolla cinese e Fed: la tempesta è planetaria

In un mondo competitivo ma iperconnesso – sul piano economico, prima ancora che comunicativo – ogni miglioramento di un soggetto implica il peggioramento di qualcun altro. Un mors tua, vita mea che non viene strombazzato nelle dichiarazioni ufficiali, ma che orienta le decisioni politiche a ogni livello.

Non sarebbe così in un mondo iperconnesso e cooperativo, in cui le difficoltà di un soggetto vengono alleviate e compensate dall'intervento di molti altri, con reciproco vantaggio nel medio-lungo periodo. Ma è inutile parlare di razionalità in ambito capitalistico. Qui l'unico imperativo resta il profitto, com'è noto. Anzi, il mio profitto, e che gli altri falliscano pure.

Salvo accorgersi – in genere quando è troppo tardi e la crisi travolge tutti – che “gli altri” non sono soltanto concorrenti (o materie prime da sfruttare al massimo, come i lavoratori dipendenti), ma anche “partner”, clienti, consumatori dei propri prodotti, fornitori, ecc. E che la loro rovina trascina con sé anche il mio profitto.

Scusate la lunga premessa, ma è quel che sta accadendo sui mitici “mercati” in questo periodo.

La crisi esplosa nel 2007-08 ha messo fine alla globalizzazione. In che senso? Ha chiuso la breve epoca della crescita globale seguita al crollo del "socialismo reale" e quindi alla riunificazione del pianeta dentro il modo di produzione capitalistico. E' finita dunque quell'epoca in cui l'espansione dei mercati ricadeva come pioggia benefica su tutti i continenti, pur con fortissime asimmetrie. Nel 2007 il petrolio era arrivato a costare 147 dollari al barile, proprio per l'enorme domanda trainata dai paesi “emergenti”, Cina in testa, che si andava ad aggiungere a quella sempre crescente, ma più moderata, dei paesi avanzati.

Con lo choc sistemico che ha avuto il suo epicentro nel fallimento di Lehmann Brothers, quarta banca d'affari del pianeta, si è chiusa l'era della World Trade Organization (Wto), dei defatiganti trattati miranti a disciplinare il commercio globale. Di lì in poi ognun per sé. O meglio. Ogni area continentale, o quasi, per proprio conto.

La crescita, nel frattempo, si era completamente arrestata nei paesi avanzati (nei casi migliori è stata recuperata la perdita subita nel momento apicale, in altri – come l'Italia e i Piigs europei – neanche quello). Il ruolo di locomotiva passava agli emergenti, che avevano ancora ampi margini per completare il proprio sviluppo industriale. La “manifattura del mondo” si era del resto spostata negli anni precedenti dal centro alle periferie e non poteva certo tornare indietro alla velocità dei flussi finanziari.

Questa espansione poteva d'altro canto contare sul “credito facile” garantito dai tassi d'interesse zero e poi dalle immissioni di liquidità promosse dalle principali banche centrali del pianeta (Federal Reserve statunitense, Banca d'Inghilterra, del Giappone, infine anche la Bce). Liquidità che non entrava in circolo nell'economia reale dei paesi “maturi”, ma alimentava il boom borsistico globale e, in misura minore ma molto rilevante, gli investimenti produttivi tra gli “emergenti”.

Un esempio settoriale per capirci. Le materie prime non riproducibili (petrolio, minerali di ogni genere, “terre rare”, ecc.), dopo un rapido ma tutto sommato breve crollo dei prezzi in piena crisi, tornavano su livelli elevati e stimolavano quindi l'investimento a debito per aumentare l'offerta. Negli Usa partiva il business dello shale oil e gas, con la costosa (anche in senso ambientale) tecnica del fracking; nelle aree ricche di materie prime (Africa, Sudamerica, Australia, Russia, ecc.) le società hanno investito e moltiplicato l'offerta.

Ma niente è per sempre, in questo mondo drogato. L'Arabia Saudita, oltre un anno e mezzo fa, ha dato il via alla superproduzione di greggio per far cadere il prezzo e far fuori, con una sola mossa, sia il business dello shale oil (che presenta costi di produzione alti, in media intorno ai 60 dollari al barile) che la Russia. La crescita d'influenza di un “polo islamico” a guida saudita, in competizione con gli antichi alleati e con i vecchi nemici, entrava a gamba tesa in un quadro dagli equilibri già molto fragili, anche per l'evidente perdita di egemonia complessiva da parte statunitense.

Ma la stessa situazione, per ragioni differenti, si veniva a creare anche in tutti gli altri comparti (il ferro australiano, il rame cileno, ecc.), delineando un quadro altamente rischioso: eccesso di produzione, calo dei prezzi e debito privato altissimo.

Il cortocircuito potenziale è evidente: hai investito per allargare la produzione e sei costretto a vendere anche sottocosto pur di ripagare i debiti e mantenere aperta l'attività. Ma questo fa scendere ancora di più il prezzo.

Due condizioni hanno fin qui impedito l'esplosione: i tassi d'interesse a zero (quindi un “servizio del debito” quasi irrisorio) e la tenuta della parossistica crescita cinese.

Il crollo delle borse cinesi ha messo in forte dubbio la seconda condizione. È vero che l'industria cinese è poco finanziarizzata (non dipende cioè dall'emissione di corporate bond e buona parte dell'azionariato è in varia misura controllato dallo Stato), com'è vero che la crescita del Pil prosegue attualmente al ritmo del 7% annuo (un sogno utopistico per qualsiasi altro paese), che rappresenta da sola la metà della crescita globale. Ma è impossibile che lo scoppio della “bolla” borsistica non abbia conseguenze. Se non immediatamente sulla produzione, certamente sui consumi di lusso di quella borghesia urbana che ha alimentato la “bolla” stessa, magari indebitandosi per comprare azioni.

Una notizia pessima per le esportazioni europee, per esempio. Ma anche per le esportazioni di molti paesi emergenti, che hanno nella Cina il primo cliente, per materie prime e non solo.

Ma anche la prima condizione – i bassi tassi di interesse – sta per scomparire. La Federal Reserve, dopo mesi di comunicati attendisti, ha infine chiarito che alzerà i tassi entro quest'anno. Dopo dieci anni di movimento opposto o stazionario intorno allo zero. E' un altro cambio d'epoca.

Prima conseguenza immediata: la rivalutazione del dollaro e l'aumento dei flussi di capitale verso i bond statunitensi, che torneranno presto a dare rendimenti interessanti.

Una notizia tragica per chi si è indebitato in dollari, naturalmente, quindi a partire dai “paesi emergenti” (Cina esclusa), perché si ritroverà con un debito aumentato e quindi più difficilmente ripagabile. E non si deve neanche leggere questa decisione come una “occhiuta manovra statunitense” per colpire i propri potenziali concorrenti (c'è anche questo, ovviamente...), perché gli istituti che hanno concesso i maggiori crediti in dollari sono quasi sempre banche Usa. Le quali vedranno quindi aumentare “le sofferenze”, i “crediti incagliati” oppure – orrore! – non restituibili.

Fare previsioni dettagliate, in questo quadro, è impossibile anche per istituti di ricerca con centinaia di dipendenti, figuriamoci per un singolo osservatore alle prese con macrotendenze di cui rintraccia con difficoltà un numero di dati assolutamente insufficiente. Ma una cosa appare chiara anche a uno sguardo superficiale: di “crescita” globale non ne sentiremo parlare tanto presto. Di competizione invece sì. Ma non sarà un bello spettacolo.

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