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28/07/2015

La trappola di Erdogan, aspettando la Nato

In attesa delle decisioni del vertice della Nato che si terrà oggi a Bruxelles su richiesta di Ankara, sembra proprio che la spregiudicata strategia del regime turco stia dando, almeno per il momento, i risultati sperati dall’asse Erdogan-Davutoglu che avrebbero addirittura incassato una sorta di ‘silenzio-assenso’ da parte del governo russo (in ballo c’è il South Stream che dovrebbe portare il gas russo nel Mediterraneo) dopo il sostegno obbligato – e interessato – da parte di quello degli Stati Uniti.  Un nuovo equilibrio che porta fuori gli islamisti turchi dall’isolamento in cui si erano cacciati sia sul fronte interno sia su quello internazionale, ma che allo stato attuale appare debole e soggetto a possibili rovesci in un contesto in cui le alleanze tra le varie potenze concorrenti durano pochi mesi se non settimane.

Fatto sta che il riavvicinamento con gli Stati Uniti è sostanziale, anche se entrambi gli attori sanno quanto gli interessi dell’altra parte possano mettere a rischio i propri. Qualcosa di molto lontano dallo storico rapporto di ‘amicizia’ tra Ankara e Washington che in realtà era di subalternità nei confronti della capofila della Nato e che ormai da tempo gli islamisti e liberisti hanno incrinato in nome di un’agenda autonoma militare e politica e dell’aspirazione a guidare un’area regionale costruita attorno al sogno di un ‘Impero Ottomano’ redivivo.

A Washington basta aver recuperato l’iniziativa in Medio Oriente convincendo Ankara a partecipare alla cosiddetta ‘coalizione internazionale’ contro i jihadisti del Califfato che il regime turco ha sempre agevolato, coccolato e sostenuto e che ora potrebbe accettare di ridimensionare – ma solo parzialmente – in nome di una contropartita alla quale aspira da tempo: spazzare via l’autogoverno curdo ai propri confini, impossessarsi di una vasta regione nel nord della Siria sulle quali da sempre Ankara accampa pretese, porre le condizioni per infliggere il colpo finale al governo di Damasco che difficilmente potrebbe contrastare un’azione militare sul suo territorio da parte di uno degli eserciti più potenti dell’Alleanza Atlantica. Ufficialmente Ankara avrebbe ricevuto il via libera da parte di Washington “solo” per istituire una “zona di non volo” nel nord della Siria e la creazione di una “zona cuscinetto” sotto il suo controllo, ma senza la possibilità di far penetrare proprie truppe nel territorio di Damasco. Tanto che a ‘curare gli interessi’ del regime ottomano dovrebbero essere alcune migliaia di mercenari e di jihadisti ‘moderati’ inquadrati in un Esercito Siriano Libero che la coalizione sta da tempo tentando di resuscitare all’uopo dopo la scomparsa del cosiddetto fronte moderato dell’opposizione di Damasco, dissanguato dal passaggio di migliaia di combattenti nelle file del Fronte al Nusra o direttamente dello Stato Islamico. Ma, al di là dell’ufficialità, è ovvio che sarebbe gioco facile per il regime turco infiltrare qualche centinaio o migliaio di propri militari nella cosiddetta ‘fascia di sicurezza’ senza dare troppo nell’occhio. Il mini­stro degli Esteri turco, Mevlut Cavu­so­glu, ha assi­cu­rato che appena l’area cuscinetto sarà libera dai miliziani di Daesh, «zone di sicu­rezza si formeranno natu­ral­mente» e potranno essere usate per rim­pa­triare centinaia di migliaia di rifu­giati siriani.

Per ora un parziale freno alle richieste turche viene dall’Unione Europea – e soprattutto da Berlino – che a differenza di Washington nicchia sulla possibilità di concedere un via libera assoluto ad Ankara e nega l’opportunità di concedere aiuti militari alla Turchia che per altro, secondo il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, Ahmet Davutoglu non ha chiesto. Nelle dichiarazioni di Federica Mogherini e dei leader tedeschi e francesi si affaccia la richiesta che la condivisibile campagna militare contro il terrorismo non “metta a rischio il processo di pace con i curdi”. Ma di fatto i bombardamenti dell’aviazione turca contro le postazioni del Pkk nel Kurdistan iracheno e contro quelle del Pyd in Rojava (che però fonti turche hanno smentito) hanno dinamitato definitivamente un negoziato che non è mai partito veramente. E quindi le dichiarazioni di circostanza dei leader europei lasciano il tempo che trovano e sembrano più rappresentare una foglia di fico per differenziarsi dall’oltranzismo di Ankara e Washington che per dare un reale stop alle mire espansionistiche del regime neo-ottomano.

Che d’altronde mira anche a rilegittimarsi all’interno del paese, dopo lo stop rappresentato dalle elezioni di inizio giugno che hanno tolto all’Akp la maggioranza assoluta ed hanno lasciato il paese senza un governo. Che ora potrebbe nascere da un accordo con i ‘nemici’ laici e socialdemocratici del Chp che in nome delle ‘necessità della nazione in tempi difficili’ potrebbero fare il salto della quaglia e tradire milioni di elettori che speravano in una espulsione dell’odiato Erdogan dal potere. Che il governo con i repubblicani vada in porto o meno, gli islamo-liberisti dell’Akp incassano un rinnovato sostegno popolare da parte dei settori conservatori e reazionari che avevano voltato le spalle al partito di governo per scegliere gli ex Lupi Grigi dell’Mhp. In caso di elezioni anticipate tenute in un clima di “crociata patriottica” contro gli islamisti diventati ufficialmente scomodi dopo che hanno colpito sul suolo turco e soprattutto contro gli odiati curdi, l’Akp potrebbe fare il pieno di voti rubandoli all’estrema destra nazionalista ma anche recuperandoli dall’astensionismo e addirittura da un Partito Repubblicano del Popolo in profonda crisi di strategia e credibilità.

Che lo Stato Islamico – ammesso che non siano stati direttamente i servizi turchi a compiere la strage di Suruc ammazzando più di 30 attivisti di sinistra in procinto di recarsi a Kobane – abbia voluto colpire il regime turco dopo il parziale distanziamento di Ankara rispetto al Califfato appare assai dubbio, e la strage avvenuta la scorsa settimana al confine con la Siria appare più un favore all’Akp che un avvertimento o l’inizio di una campagna militare contro i propri ‘ex’ padrini. Di fatto l’attentato ha preso di mira organizzazioni di sinistra radicale, e oltretutto collaborative nei confronti del movimento curdo, nemiche del regime neo-ottomano. Concedendo ad Erdogan l’opportunità di avviare un piano – i bombardamenti simbolici contro Daesh in Siria, quelli assai più consistenti contro il Pkk in Iraq e ora anche in Rojava – preparato a tavolino dalla cupola dell’Akp e propedeutica alla ritrovata sintonia con Washington in cambio del riconoscimento del ruolo turco nella regione. Dopo la strage di Suruc, i bombardamenti, gli arresti di massa e le uccisioni di manifestanti dell’ultima settimana, il Pkk non ha potuto fare altro che dare per morto il negoziato iniziato nel 2013 e riprendere le azioni armate, anche se per ora limitando gli attacchi. Ma il fronte politico curdo frena, conscio che un ritorno allo scontro frontale significherebbe il ritorno indietro di decenni dal punto di vista dell’agibilità politica e istituzionale.

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