di Francesca La Bella
Le reazioni degli attori internazionali all’accordo sul programma nucleare iraniano sono state molteplici e variegate e, accanto ad un diffuso ottimismo per la conclusione positiva delle discussioni, molte sono state le prese di posizione contrarie al riavvicinamento tra Teheran e leader mondiali.
Sia negli Stati Uniti sia in alcuni Paesi mediorientali, Arabia Saudita ed Israele in primis, vi è grande timore per le conseguenze del piano di controllo della proliferazione nucleare iraniana e della fine delle sanzioni su settori strategici dell’economia di Teheran. Le ricadute del negoziato potrebbero cambiare gli equilibri regionali dal punto di vista politico-diplomatico, ma anche dal punto di vista economico soprattutto se si considerano le condizioni di instabilità dell’area. In questo senso un Iran libero da embargo potrebbe rendere maggiormente incisiva la propria azione regionale ed internazionale andando ad intaccare la capacità di influenza saudita e la volontà di potenza israeliana, mutando in maniera significativa gli equilibri interni a Paesi chiave come la Siria, il Libano, l’Iraq o lo Yemen.
L’attenzione del Governo di Teheran sembra, però, al momento, maggiormente focalizzata sulle dinamiche interne al proprio Paese. L’accordo è stato accolto con manifestazioni di piazza e comunicati di tutte le maggiori figure politiche iraniane e le conseguenze nazionali del patto potrebbero essere ancor più evidenti rispetto a quelle internazionali. Quella che viene considerata una grande vittoria del Presidente Hassan Rouhani, del Ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif e di tutto il fronte iraniano moderato sembra aver incrinato gli equilibri interni al Paese. Per quanto molti analisti sostengano che le divisioni siano minori rispetto alle apparenze e che la conclusione positiva dei negoziati non sarebbe stata possibile senza il beneplacito dell’Ayatollah Ali Khamenei, molte delle dichiarazioni provenienti dalla platea politica iraniana sembrano osteggiare l’implementazione dell’accordo. La Guida Suprema iraniana ha affermato la settimana scorsa in occasione della preghiera di fine Ramadan alla moschea di Teheran che, nonostante l’accordo, non sarebbe cambiata la politica iraniana nei confronti dell’arroganza statunitense ed ha concluso ricordando che non esistono accordi bilaterali o negoziazioni su questioni regionali ed internazionali con gli Stati Uniti al di fuori della questione nucleare. Poche ore prima dell’ufficializzazione del patto, in un’intervista all’agenzia di stampa iraniana Tasnim anche il comandante delle Guardie Rivoluzionarie Mohammad Ali Jafari aveva espresso il suo scetticismo in merito alla questione. Pur sottolineando che la polarizzazione interna al Paese è da considerare più una costruzione dei media occidentali che una realtà, il generale ha dichiarato con fermezza che qualsiasi risoluzione perderebbe validità qualora cada in contraddizione con le linee guida (“red lines”) della politica della Repubblica Islamica d’Iran. I punti dell’accordo che presenterebbero maggiori criticità sono quelli relativi alle ispezioni a luoghi di rilevanza militare ed al prolungamento dell’embargo sugli armamenti per altri cinque anni.
Ciò che è in gioco è, però, ben di più. L’accordo, infatti, apre il mercato iraniano agli investimenti esteri come immediatamente confermato dalle parole di Mohammad Khazaee, ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, che ha annunciato l’approvazione di investimenti di aziende e compagnie europee nel mercato iraniano per un valore di oltre 2 milioni di dollari. Parallelamente il 23 e il 24 luglio è previsto a Vienna un convegno sulle possibilità commerciali e di investimento in Iran che, come da headline del sito ufficiale, sarà storico in quanto primo evento dopo la firma degli accordi. Dal punto di vista economico vi è, dunque, una forte apertura verso l’esterno che potrebbe risultare gradita ai settori produttivi iraniani, ma potrebbe essere utilizzata come strumento di pressione in caso di scelte di politica regionale dell’Iran non in linea con i bisogni di tutela degli investitori. Dal punto di vista politico-diplomatico, invece, l’accordo sul nucleare, da un lato obbliga Teheran al dialogo con gli Stati Uniti e con le Nazioni Unite, ma dall’altra costituisce un riconoscimento del ruolo del Paese nell’area e ne legittima in maniera informale l’azione.
Alla luce di questo, il presidente Rouhani esce rafforzato dai negoziati e, se il processo di rimozione delle sanzioni dovesse arrivare a conclusione, con una gestione efficace dei capitali liberati da embargo, il governo potrebbe avviare la ripresa dell’economia iraniana portando ulteriori consensi al fronte moderato. La grande instabilità mediorientale e le pressioni dei due maggiori alleati statunitensi nell’area (Arabia Saudita e Israele) potrebbero, però, rendere più difficile la transizione, obbligando Rouhani a concedere molto sul piano politico e militare alle componenti più conservatrici. Il coinvolgimento diretto e indiretto iraniano nella maggior parte dei teatri di guerra dell’area ha dei costi significativi e la nuova iniezione di liquidità dovuta alla fine delle sanzioni potrebbe andare a finanziare movimenti politici di altri Paesi, vicini alla dirigenza di Teheran, come i gruppi sciiti iracheni, Hezbollah o Hamas. In questo caso l’investimento potrebbe essere letto sia in una logica di balance of power e di marginalizzazione del ruolo di Arabia Saudita ed Israele sia in un’ottica di contenimento quando non di sradicamento dello Stato Islamico e dei gruppi ad esso collegati.
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