di Michele Paris
La decisione
adottata lo scorso fine settimana dal governo turco di prendere parte
attiva alla campagna bellica guidata dagli Stati Uniti ufficialmente
contro lo Stato Islamico (ISIS) rappresenta una svolta strategica
significativa e potenzialmente in grado di cambiare le sorti del
conflitto in Siria. Ankara rimane però prigioniera delle contraddizioni
prodotte dalla sua stessa politica estera, mentre le conseguenze delle
proprie azioni potrebbero facilmente portare a un’ulteriore
destabilizzazione dell’intero Medio Oriente.
Dopo i primi
bombardamenti condotti dai jet turchi contro le basi dell’ISIS nel nord
della Siria nella giornata di venerdì, le incursioni oltre confine si
sono ripetute nella notte di domenica. In questo caso, come era
parzialmente successo due giorni prima, le bombe hanno però colpito
postazioni del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel nord
dell’Iraq, in risposta a una serie di attentati registrati in Turchia
nei giorni scorsi e, da ultimo, un attacco nella serata di domenica
risoltosi in due soldati turchi uccisi nella località di Diyarbakir.
La
nuova intraprendenza turca è scaturita dall’accordo siglato sempre la
settimana scorsa con gli Stati Uniti, da tempo impegnati a convincere il
governo del presidente, Recep Tayyip Erdogan, e del primo ministro,
Ahmet Davutoglu, a partecipare all’azione contro l’ISIS in territorio
iracheno e siriano. Washington ha inoltre ottenuto l’utilizzo di almeno
due basi militari in Turchia, tra cui quella di Incirlik, da dove
prenderanno il volo gli aerei da guerra impegnati nella campagna contro i
fondamentalisti islamici.
Gli aspetti cruciali dell’intesa
sembrano essere però le concessioni fatte dall’amministrazione Obama al
governo di Ankara, anche se non ancora riconosciute ufficialmente, come
la riapertura delle ostilità con il PKK dopo la tregua che durava dal
2012. Gli Stati Uniti hanno appoggiato pubblicamente l’iniziativa della
Turchia, citando il diritto di questo paese all’autodifesa e ricordando
come anche Washington consideri il PKK un’organizzazione terrorista.
Il
crollo del processo di pace tra il governo turco e il PKK ha tuttavia
delle implicazioni ben più ampie, visto che questa organizzazione armata
curda ha stretti legami con il Partito dell’Unione Democratica (PYD)
curdo-siriano e il suo braccio armato, le Unità di Protezione Popolare
(YPG). Sia il PYD sia l’YPG sono stati finora in prima linea nella lotta
contro l’ISIS in Siria, fungendo di fatto da alleati della coalizione
guidata dagli USA.
Gli sviluppi di questi giorni suggeriscono
perciò che la Turchia abbia ottenuto il via libera dagli americani per
colpire la presunta minaccia curda oltre i propri confini meridionali in
cambio dell’impegno - la cui intensità sarà tutta da verificare - di
partecipare all’offensiva contro l’ISIS. Ankara, d’altra parte, vede con
maggiore nervosismo la formazione di un fronte unitario curdo che non
l’espansione dell’ISIS in Siria, la cui avanzata è stata anzi sostenuta
più o meno attivamente per favorire la caduta di Bashar al-Assad.
Proprio
la fine del regime di Damasco è senza dubbio al centro dei pensieri di
Erdogan e Davutoglu, come conferma l’altra importante concessione con
ogni probabilità fatta dagli Stati Uniti ad Ankara. La Turchia avrebbe
cioè ottenuto l’OK per la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il
proprio confine in territorio siriano.
Da quello che hanno
riportato i giornali americani e turchi, l’amministrazione Obama intende
evitare di chiamare quest’area con il proprio nome - “no-fly zone” -
visto che ciò renderebbe fin troppo evidente come il vero obiettivo
della campagna condotta da quasi un anno in Siria sia il regime di
Assad. Quindi, Ankara e Washington parleranno di “area di sicurezza” o
“area protetta”, anche se il risultato sarà comunque quello di istituire
un territorio da assegnare al controllo dell’opposizione siriana
“moderata” per organizzare non tanto la battaglia contro l’ISIS ma
contro le forze di Damasco.
Con una certa ironia quasi certamente involontaria, domenica il Washington Post
ha ricordato come gli Stati Uniti e la Turchia abbiano però pareri
differenti circa i gruppi armati di opposizione in Siria da considerare
“moderati”, alla luce soprattutto della spregiudicata politica di Ankara
a favore di organizzazioni jihadiste violente, utilizzate come forza
d’urto per cercare di rovesciare Assad.
In
ogni caso, l’impatto di un impegno diretto della Turchia in Siria
minaccia di produrre una frattura nella coalizione nominalmente
anti-ISIS, poiché i leader curdi siriani, i quali non senza ragioni
accusano da tempo Erdogan di appoggiare questa stessa organizzazione,
hanno espresso preoccupazione per il possibile ingresso delle truppe di
Ankara in Siria. Un eventuale scontro tra la Turchia e le forze dell’YPG
metterebbe nelle mani di Washington una nuova questione spinosa sul
fronte siriano, sia pure anche in questo caso derivante dalla dissennata
politica estera americana.
Che le intenzioni di Erdogan siano
quelle di colpire principalmente i curdi sul proprio territorio è
comunque evidente anche dalla netta prevalenza dei militanti
appartenenti a questa minoranza tra le centinaia di arresti in varie
operazioni di polizia condotte negli ultimi giorni.
Anche se
ufficialmente motivata dall’attentato suicida di una settimana fa nella
città di Suruç, commesso da un membro dell’ISIS, e dalle azioni del PKK,
la svolta strategica e militare di Ankara a cui si sta assistendo era
in preparazione da tempo.
Una serie di fattori sembra avere
contribuito alla svolta decisa da Erdogan e Davutoglu, tutti più o meno
riconducibili alla crisi politica del loro partito (AKP) e al
ridimensionamento della posizione della Turchia sullo scacchiere
regionale, ugualmente conseguenza delle politiche del governo.
Innanzitutto,
la decisione di partecipare in maniera diretta alla guerra contro
l’ISIS, come dimostra anche l’enorme interesse suscitato tra i media di
tutto il mondo, consente in qualche modo alla Turchia di tornare a
svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende mediorientali.
Se Ankara aveva partecipato attivamente alla guerra clandestina per
abbattere Assad, appoggiando fin dall’inizio del conflitto in Siria i
gruppi armati fondamentalisti, l’esplosione e l’avanzata in Iraq
dell’ISIS avevano finito per produrre una coalizione tra gli USA, i
paesi arabi sunniti e le formazioni curde irachene e siriane, a
discapito appunto di una Turchia rimasta relativamente isolata.
La
partecipazione tardiva alla campagna anti-ISIS e l’offensiva contro il
PKK sono così il tentativo di recuperare una certa influenza in Medio
Oriente, coerentemente con le ambizioni da potenza regionale nutrite dal
governo dell’AKP.
L’altro fattore, in parte collegato al
precedente, ha a che fare invece con la situazione politica interna
turca. Com’è noto, l’AKP ha perso per la prima volta da quando è al
potere la maggioranza assoluta in Parlamento nelle elezioni dello scorso
mese di maggio, soprattutto a causa della conquista per la prima volta
di un certo numero di seggi da parte della formazione curda HDP.
Vista
la difficoltà nel mettere assieme un gabinetto di coalizione che, in
ogni caso, ridurrebbe gli spazi di manovra di Erdogan e Davutoglu, i due
leader dell’AKP puntano a nuove elezioni tra pochi mesi per tornare a
governare in autonomia. A questo scopo, il presidente e il primo
ministro intendono alimentare i sentimenti nazionalisti e anti-curdi in
Turchia, così da recuperare una parte dei consensi finiti all’HDP
nell’ultima tornata elettorale.
Ugualmente,
colpendo o dando l’impressione di colpire l’ISIS, il governo turco
proverà a neutralizzare le accuse che molti anche sul fronte interno gli
rivolgono di avere sostenuto l’organizzazione fondamentalista o, quanto
meno, di avere tollerato le operazioni e il transito verso la Siria dei
suoi membri, con il risultato di avere destabilizzato la stessa
Turchia.
Questa scommessa non è tuttavia priva di rischi per
Erdogan, visto che le decisioni dei giorni scorsi minacciano di
trascinare ancor più la Turchia in un conflitto su due fronti – siriano e
curdo – decisamente impopolare tra la popolazione. Gli ostacoli che si
prospettano per il governo sono in definitiva di sua stessa creazione,
essendo il rafforzamento dell’ISIS e delle formazioni curde la diretta
conseguenza delle manovre messe in atto per indebolire il regime di
Assad in Siria.
La Turchia, ad ogni modo, ha chiesto per martedì
la convocazione di una riunione straordinaria della NATO, secondo il
ministero degli Esteri di Ankara per “informare gli alleati sulle
operazioni in corso contro l’ISIS in Siria e il PKK nel nord dell’Iraq”.
Il vertice, in realtà, potrebbe essere l’occasione per dare una qualche
legittimità alle incursioni iniziate nei giorni scorsi e per ottenere
l’appoggio alla creazione di una no-fly zone a tutti gli effetti in
territorio siriano.
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