di Chiara Cruciati - il Manifesto
Raid sullo Stato Islamico
in Siria, operazioni militari contro il Pkk tra Turchia e Iraq: Ankara,
dopo un anno di silenzio e accuse di collaborazionismo con l’Isis, si è
lanciata contro gli islamisti. Ma il target principale è chiaramente un
altro: il movimento kurdo. Finisce così una tregua mai realmente voluta
dalla Turchia di Erdogan, le cui politiche neoliberiste e nazionaliste
hanno affossato le tante richieste di democrazia provenienti dalla base,
turca e kurda. Ne abbiamo parlato con Murat Cinar, giornalista e attivista della sinistra turca.
Dopo aver evitato di intervenire per oltre un anno, ora la
Turchia colpisce lo Stato Islamico. Ma anche e soprattutto il Pkk.
Sembra che l’azione contro l’Isis sia in realtà una giustificazione
all’intervento contro il movimento kurdo.
Le prime operazioni subito dopo la strage di Suruc compiute in quasi
25 città, con lo scopo di arrestare eventuali appartenenti alle
organizzazioni Hpg, Pkk e Isis, hanno reso chiaro il proposito del
governo: reprimere il Pkk, attraverso arresti di massa e sequestro di
beni. Azioni che non venivano messe in atto da quando l’Akp e i servizi
segreti hanno optato per il negoziato con Ocalan. La scorsa settimana la
rottura della tregua si è concretizzata con i bombardamenti dei jet
turchi contro la montagna di Qandil, dove si trovano ufficiali del Pkk e
sedi dell’organizzazione.
Ma i raid non vanno letti come un intento secondario: la Turchia non
attacca l’Isis e, con quella scusa, anche il Pkk. La prima notte, la
Turchia ha bombardato l’Isis in un intervento molto semplice e breve,
solo 25 minuti e 5 bombe. Quello contro il Pkk non è un intervento
secondario, ma primario: le parole di Davutoglu e le azioni
dell’esercito sono l’espressione chiara dell’intenzione di colpire il
Pkk e non l’Isis. Davutoglu domenica ha detto che lo scopo è rispondere
al Pkk in merito all’uccisione dei due poliziotti a Ceylanpinar. Un
gesto forte dopo due anni e mezzo di quasi totale silenzio. Dico quasi
perché negli ultimi mesi la tensione era salita: l’esercito ha costruito
dighe e nuove caserme in territorio kurdo e ha militarizzato il
territorio.
Ancora sabato e domenica in altre 30 città, migliaia di poliziotti
hanno svolto operazioni nelle abitazioni di civili portando in caserma
centinaia di presunti membri del Pkk, ma anche membri del Partito
Democratico del Popolo, l’Hdp.
In realtà Erdogan non ha mai portato avanti seriamente il negoziato. Perché l’Akp non vuole la pace?
Parliamo di una realtà partitica particolare: l’Akp prende i voti non
solo dai conservatori, ma anche dai nazionalisti. Con l’apparizione di
Erdogan sulla scena politica, il partito nazionalista turco è morto e i
voti sono confluiti sull’Akp, una compagine nuova con un leader
carismatico che aveva promesso un fittizio rilancio economico e la
soluzione di un problema storico senza armi.
Ma mentre Erdogan prometteva una soluzione di riconciliazione
nazionale (anche per attirare i voti dei kurdi conservatori o dei
giovani kurdi che non hanno conosciuto l’epoca della repressione),
sapeva di rischiare di perdere consenso tra il proprio elettorato
trattando con Ocalan, definito dalla stampa come macellaio e terrorista.
Difficile giustificare all’opinione pubblica un negoziato tra i tuoi
parlamentari e i tuoi servizi segreti e il Pkk. Per questo, mentre
parlava di pace, Erdogan negava l’identità kurda, l’insegnamento della
lingua kurda, impediva la partecipazione politica dei kurdi e gettava
fango sull’Hdp.
È un gioco insano che non poteva reggere. Perché mentre Erdogan
uccideva i nostri giovani a Gezi Park, rendeva precario il lavoro,
svendeva il paese, le banche e i porti ai privati, introduceva i
pacchetti di sicurezza più totalitari mai visti in Turchia, uccideva
centinaia di operai rendendo insicuro il lavoro, non poteva allo stesso
tempo costruire la pace né rendere più democratico il paese.
Nei prossimi giorni e mesi si riaprirà il conflitto? L’impressione è che Ankara punti al caos per tornare al voto.
Il conflitto si è già riaperto. Il governo non è ancora legittimo e
non si impegnerà a risolvere la questione in modo pacifico. Erdogan è
stato chiaro: Pkk e Hdp non hanno saputo sfruttare questa occasione, per
cui non avrà pietà.
Dopotutto Erdogan ha sempre governato con la paura e i pacchetti di
sicurezza. Aumenta il numero di poliziotti e i loro stipendi, applica le
leggi costituzionali degli ultimi golpisti per sospendere il diritto di
sciopero, invia la gendarmeria contro gli operai che chiedono aumenti
salariali. Lo ha fatto a primavera contro i 100mila metalmeccanici in
sciopero e, prima, con i lavoratori del Tekel, l’ente statale per
tabacchi e alcolici.
È la cultura della paranoia che aumenta l’attaccamento alla religione
e al sentimento nazionalista: la Turchia è il laboratorio del gladio e
del nazionalismo ed Erdogan non è che la nuova faccia che sfrutta
politiche storiche, dai progetti anti-comunisti di Carter fino al golpe
del 1980. È solo l’ultimo strumento di un sistema secolare, un sistema
che funziona ma a breve termine. La Storia dimostra che queste politiche
non durano. L’Akp può reggere dieci, vent’anni: Gezi Park ha dimostrato
che Erdogan è in declino. La mia paura è che mentre va verso la rovina,
si trascini dietro un paese a pezzi, pieno di conflitti interni.
In un intervento a Radio Onda d’Urto, lei ha parlato di un
infiltrato nell’Akp che già dopo le elezioni riportava dell’alta
probabilità di attentati organizzati dai servizi segreti.
Si tratta di un account misterioso che opera da molto tempo,
probabilmente un membro dell’Akp. In passato ha annunciato in anticipo
diverse operazioni dell’esercito e dei servizi segreti. Pochi giorni
dopo le elezioni del 7 giugno, ha scritto di un pacchetto di Akp e
servizi segreti per trascinare il paese nel caos attraverso una serie di
attentati, così da portare il popolo a elezioni anticipate, a novembre,
convincendolo che solo un governo a partito unico potrà salvarlo.
Quale potrebbe essere la reazione dei movimenti di base
turchi e kurdi, quelli che scesero in piazza per Gezi Park e più
recentemente per Kobane e Rojava?
Dopo Gezi la gente ha capito di poter fare tanto, il paese si è
alzato in piedi e ora ci mette poco a mobilitarsi. Gezi ha sollevato una
coscienza che dormiva. La gente è intimorita per le morti di piazza e
le aggressioni della polizia ma la strada è ormai segnata: la sinistra
si è mobilitata e il successo elettorale dell’Hdp ne è la prova. Non è
ormai un partito filo-kurdo e basta, ma è il rappresentante parlamentare
della sinistra radicale e dei movimenti di base.
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