Nel video pubblicato ieri online, lo Stato Islamico dichiara guerra
ad Hamas. Trasformeremo la Striscia in un altro feudo del califfato per
strappare l’enclave ad un gruppo che non impone la religione ai civili:
questo il contenuto del messaggio inviato al movimento islamista
palestinese, sunnita come l’Isis ma considerato un rivale.
“Estirperemo lo Stato degli ebrei e voi, tiranni di Hamas, e
Fatah, tutti i laici sono nulla e calpesteremo le vostre moltitudini
striscianti”, dice un miliziano mascherato nel video. Nel calderone
delle minaccie islamiste finiscono tutti: “La legge della
Sharia sarà implementata a Gaza, nonostante voi. Giuriamo che quello che
sta avvenendo nel Levante oggi e in particolare a Yarmouk succederà
anche a Gaza”.
Negli ultimi tempi si sono susseguite azioni dentro la
Striscia, attentati dinamitardi ed esplosioni rivendicati dall’Isis. Non
è ancora possibile stabilire se si tratti di individui o piccoli gruppi
che si richiamano alla propaganda del califfato, o se dietro ci sia una
collaborazione più stretta e profonda. Secondo alcuni, a Gaza,
si tratterebbe di miliziani venuti da fuori; secondo altri di gazawi
legati al salafismo e oppositori del governo de facto della
Striscia. C’è chi tra gli osservatori esterni, come l’International
Crisis Group, parla di qualche migliaio di simpatizzanti del neonato
gruppo “Sostenitori dello Stato Islamico”, che avrebbe anche un braccio
armato, il Battaglione Sheikh Omar Hadid.
Solo a marzo sono state quattro le azioni compiute nella Striscia:
una bomba contro un checkpoint di Hamas a nord, un’altra esplosa dentro
un cassonetto dei rifiuti, una terza a Gaza City e una quarta che ha
distrutto un negozio di pollame di proprietà di un funzionario di Hamas.
Una serie di attacchi a cui seguirono arresti di massa di sostenitori del gruppo da parte delle forze di sicurezza di Hamas.
Ma in quelle immagini video c’è tanto di più: c’è lo scontro
tra la visione transnazionale del califfato e il progetto nazionalista
di Hamas; c’è il conflitto tra gruppi sunniti, potenziali e
concreti target per l’Isis che nella sua barbara avanzata ha avuto tra
le sue vittime molti più sunniti che civili e miliziani di altre fedi o
appartenenze etniche; c’è la contrapposizione chiara tra l’asse
sunnita guidato dall’Arabia Saudita e finanziatore di gruppi estremisti e
l’asse sciita o della resistenza (abbandonato da Hamas che tagliò i ponti con il presidente siriano Assad, ma ora pronto a riavvicinarsi all’Iran); c’è la minaccia passeggera a Israele – mai considerato dall’Isis un reale nemico, come del resto non lo è per gruppi islamisti attivi in Siria, come al-Nusra.
Perché, lasciando da parte le voci (mai comprovate) che da tempo
ormai accusano il Mossad di aver addestrato e preparato la leadership
del califfato, nella visione del califfo il modello religioso e politico
a cui dar vita in Medio Oriente non è volto a colpire fuori (quelli che
potrebbero essere considerati avversari storici del jihadismo globale)
ma a distruggere dentro: distruggere l’identità araba e le sue variegate
religioni ed etnie per imporre l’identità islamica. Il nemico per il
califfo non è l’Occidente, ma chi all’interno del suo mondo di
riferimento, si oppone al progetto transnazionale islamista.
Ma in quel video c’è un altro elemento che salta agli occhi: le bugie della propaganda israeliana.
Nelle settimane dure della campagna elettorale, il premier Netanyahu
(rieletto il 17 marzo, per un soffio) ha giocato sulle paure della
propria popolazione, sul terrorismo islamista e sull’Isis. Video-spot
con il primo ministro che sbandierava il fantasma dello Stato Islamico
hanno avuto il loro effetto e il Likud è riuscito, in extremis, ad
accappararsi la maggioranza relativa.
In quei mesi (ma ancora oggi) il governo israeliano ha più
volte ripetuto che “Hamas è l’Isis e l’Isis è Hamas”, che il movimento
palestinese andava annullato perché espressione del califfato nel
proprio giardino di casa. Netanyahu in quelle occasioni ha
dimostrato o di non conoscere affatto la storia e la natura dei due
movimenti o, peggio, di strumentalizzare a proprio favore le paure su
cui da decenni si fonda il consenso a qualsiasi partito di governo
israeliano.
Ancora ieri il ministro dell’Intelligence israeliano, Israel
Katz, tornava ad accusare Hamas di partnership con lo Stato Islamico,
una collaborazione che avrebbe il suo teatro in Sinai: “C’è
coordinamento tra loro nel contrabbando di armi e negli attacchi
terroristici. Gli egiziani lo sanno, e lo sanno i sauditi – ha ditto
Katz – Allo stesso tempo, dentro Gaza, l’Isis si fa beffe di Hamas. Ma
hanno la stessa causa contro gli ebrei, in Israele e fuori”.
Quello che però preoccupa la popolazione di Gaza è altro: se il
sedicente Stato Islamico a Gaza lanciasse razzi verso Israele, in aperta
sfida all’autorità di Hamas più che come minaccia a Tel Aviv, sarebbe
la migliore delle giustificazioni per il governo Netanyahu per lanciare
un’altra operazione militare contro una popolazione stremata. Dall’altro
lato le terribili condizioni della Striscia, mai ricostruita
dopo Margine Protettivo, con un tasso di disoccupazione che supera il
40%, senza lavoro e opportunità per il futuro, con un assedio ancora
stringente, potrebbero rappresentare il miglior terreno di coltura della
radicalizzazione.
Come sempre accade, a generare gli
estremismi non sono le appartenenze religiose ma le condizioni
socio-economiche, le dittature politiche e le occupazioni militari.
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