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03/03/2016

Cos'hanno in comune Egitto e Turchia? L'Arabia Saudita

di Giovanni Pagani 

Se Abdel Fattah al-Sisi fosse nato ad Ankara invece che al Cairo, rappresenterebbe probabilmente tutto ciò che un presidente come Erdogan dovrebbe temere. Un uomo forte e politicamente cresciuto nei corridoi del potere militare, pronto a sfruttare il dissenso popolare per deporre un presidente islamista, incarcerarlo, condannarlo a morte, mettere fuori legge il suo movimento politico e infine prenderne il posto. Il tutto in nome della ‘stabilità del paese’. Al contrario, se Reçep Tayyip Erdogan fosse stato figlio di un membro della Guardia Costiera egiziana, e non turca, ma avesse ugualmente percorso la strada dell’Islam politico con il medesimo successo, forse oggi sarebbe l’uomo che l’ex generale al-Sisi vuole mandare a morte.

Tuttavia, dopo quasi tre anni di gelo diplomatico tra i due paesi, qualcosa potrebbe presto cambiare e uno scenario di collaborazione tra Egitto e Turchia potrebbe non appartenere più soltanto al passato. Erdogan e al-Sisi hanno certamente poche affinità. Uno è tra i maggiori sostenitori della Fratellanza Musulmana, l’altro ne è l’acerrimo nemico; uno è paranoico riguardo alla minaccia rappresentata dai propri generali, l’altro è un ex-generale che ne ha concretizzato la minaccia nel proprio paese; uno è tra i primi finanziatori dei ribelli siriani, l’altro sembra comprendere il loro odiato presidente. Ma tralasciando queste divergenze, il presidente turco e il suo omologo egiziano qualcosa in comune sembrano averlo e non si tratta solo di una condivisa antipatia per i giornalisti scomodi, bensì di un alleato con capitale a Riyadh, al quale entrambi sono inevitabilmente sempre più legati.

In altre parole, mentre la regione si polarizza sull’onda di una guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran, Egitto e Turchia si trovano dalla stessa parte della storia. E a dispetto d’identità e passati diversi, oltre ad analoghe ambizioni egemoniche, il fatto che entrambi abbiano una popolazione omogeneamente sunnita e nessuna minoranza sciita sulla quale Tehran possa far leva, li fa rientrare automaticamente nell’orbita di Re Salman. Mentre l’Egitto dipende infatti dagli aiuti economici sauditi per tenere a galla la propria economia – soprattutto dopo che la minaccia terroristica ha dato il colpo di grazia al turismo –, Ankara punta tutto sull’alleanza con Riyadh, al fianco della quale gioca una partita fondamentale in Siria.

Inoltre, come osservato da vari analisti, dopo aver seriamente compromesso i legami con Mosca e deteriorato i rapporti con Tehran per il proprio sostegno alla ribellione siriana, Ankara è spaventata da un isolamento che sembra essere sempre più concreto e starebbe frettolosamente cercando di ripristinare le relazioni diplomatiche con i vecchi alleati: Israele ed Egitto in cima alla lista.

Con Israele, il silenzio era iniziato 6 anni fa, quando la Mavi Marmara – nave turca che trasportava aiuti umanitari destinati alla Striscia di Gaza – nel maggio 2010 era stata attaccata dall’esercito israeliano, che aveva ucciso 9 cittadini turchi, membri dell’equipaggio. Con l’Egitto, i rapporti diplomatici si erano invece interrotti nel luglio 2013, quando l’ex generale al-Sisi rovesciò il governo democraticamente eletto di Mohammed Morsi – appoggiato a quel tempo da Ankara – e ne incarcerò i vertici.

In questo quadro, mentre esponenti del governo Turco hanno già fatto sapere che un documento di riconciliazione sarà presto firmato con Israele, il riavvicinamento tra Reçep Tayyip Erdogan e Abdel Fattah al-Sisi potrebbe invece soffrire di divergenze più profonde; divergenze che solo la monarchia saudita sarebbe in grado di far quadrare.

I due nodi principali riguardano soprattutto la politica estera di Ankara – e il torbido rapporto tra quest’ultima e l’estremismo islamico – e il pugno duro di al-Sisi nei confronti dei fratelli musulmani. Erdogan trova infatti inammissibile che la Fratellanza egiziana sia considerata un movimento terroristico, costretto ad agire nell’ombra e con buona parte dei propri vertici in carcere. Al contrario, il Cairo non gradisce la vicinanza di Ankara ad Hamas – costola palestinese dei Fratelli –, soprattutto dopo che il governo turco ha approfittato del riavvicinamento con Israele per chiedere la revoca del blocco navale su Gaza, da dove al-Sisi teme che proprio Hamas possa sostenere i gruppi armati del Sinai.

Inoltre, l’Egitto ha adottato una linea molto diversa da Turchia e Arabia Saudita rispetto alla Siria, dove le ultime due sostengono apertamente i ribelli, nella speranza di deporre Assad, mentre il primo sarebbe più interessato a combattere Daesh, al fine di colpire indirettamente il morale dei suoi seguaci in Egitto e Libia. In questo contesto, è forse possibile che al-Sisi possa mitigare le proprie posizioni in merito ad alcuni singoli membri della Fratellanza Musulmana, ma è piuttosto improbabile che un riavvicinamento con Ankara lo porti ad abbandonare la linea dura nei confronti dell’intero movimento. La Turchia, da parte sua, potrebbe invece riconoscere la legittimità politica del governo di al-Sisi e allentare la presa sul blocco di Gaza – obiettivo più simbolico che strategico –, ma non rinuncerà mai alla partita siriana, sulla quale si giocano ormai le intere sorti della politica estera turca.

Intanto, il governo di Ankara ha ufficialmente invitato il presidente egiziano a Istanbul il prossimo aprile, quando si terrà il summit annuale dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, mentre nei giorni scorsi, alcuni quotidiani turchi hanno reso noto che il presidente Erdogan sarebbe intenzionato a coinvolgere il Cairo in un working-group sulla questione libica. Da questa prospettiva, una ripresa del dialogo tra i due paesi sembrerebbe essere molto più indispensabile per il fronte turco che per quello egiziano; anche se un riavvicinamento tra al-Sisi ed Erdogan sarebbe visto soprattutto di buon grado da Riyadh. Re Salman, che ha recentemente definito Egitto, Arabia Saudita e Turchia come i tre paesi più importanti della regione, vede infatti il ricompattamento del fronte sunnita in chiave anti-iraniana come una priorità assoluta, e sarebbe ben felice di riallineare tale asse a proprio favore.

Se dunque Erdogan e Al-Sisi non troveranno un accordo, Riyadh potrebbe decidere d’intervenire, e ricordare il piano di aiuti economici sauditi da 8 miliardi, firmato con l’Egitto a dicembre, potrebbe già servire da fluidificante.

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