Sembra già finita l’avanzata della Federal Reserve statunitense verso tassi di interesse “normali” (intorno al 3%) e persino l’abbandono della politica monetaria “accomodante” che per sette anni ha tenuto artificialmente in piedi l’economia Usa e quindi quella di tutto il mondo.
Janet Yellen, il presidente della Fed, ha deciso ieri di mantenere la “forchetta” del tasso base tra lo 0,25 e lo 0,50%. Ovvero il livello cui era stata portata a dicembre e che era stato annunciato come il primo passo verso un aumento ragionevolmente cauto, ma tutto sommato rapido: quattro aumenti dei tassi per il 2016.
Ora tutto viene drasticamente ridimensionato: al massimo due aumenti per quest’anno, e solo se la congiuntura globale darà segni di risveglio (che non si vedono, per ammissione della stessa Fed). Quindi, per adesso, tutto resta com’è.
Le reazioni sono state ovvie: borse in festa, perché continueranno a beneficiare dell’eccesso di liquidità creata in sette anni di quantitative easing e tassi a zero; dollaro che si svaluta rispetto all’euro e allo yen, mantenendo così aperta la finestra per le non brillanti esportazioni Usa.
Ma al di là di questi rimbalzi immediati, è la prospettiva fosca di medio termine a dover essere studiata per capire ragioni e conseguenze di questa scelta della Fed (peraltro data per scontata dai mercati nelle settimane alle nostre spalle).
La nota della Yellen parla esplicitamente – cosa più che rara, nel linguaggio ovattato della banca centrale americana – di «Una serie di recenti indicatori che segnalano un rafforzamento del mercato del lavoro e l’inflazione è risalita negli ultimi mesi. Tuttavia gli sviluppi economici e finanziari a livello globale continuano a rappresentare dei rischi e l’inflazione resterà bassa nel breve periodo».
È noto che la Fed dovrebbe tener d’occhio, per statuto, solo il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione (al contrario della Bce, inchiodata in teoria soltanto al primo paletto). Entrambi gli indici sembrerebbero positivi, con la disoccupazione ufficiale scesa addirittura al 4,7%. Ma è un’occupazione fatta di “lavoretti” a bassissimo salario, quindi incapace di esercitare pressione inflazionistica “sana” (un aumento dei salari, quindi un incremento dei consumi), perché sconta una disoccupazione reale (comprensiva dunque dei senza lavoro “scoraggiati”, che non si iscrivono neppure più agli uffici di collocamento) che raggiunge ormai un terzo della popolazione in età da lavoro (vedi il grafico qui sotto, con lo scarto crescente tra i due indici). Di fatto, dunque, la “pressione salariale” sull’inflazione non può essere esercitata, perché c’è un oceano di senza lavoro che preme per tenere i salari reali al livello minimo.
Non basta. La Fed ha verificato che anche gli investimenti privati sono diventati “deboli”, invece del “in crescita moderata” segnalato a gennaio. Significa che non c’è una prospettiva di ripresa produttiva consistente, per lo meno nel breve-medio periodo. Del resto, come in tutto il mondo, ha ben poco senso fare investimenti in presenza di una “sovracapacità produttiva” di dimensioni colossali (il 40% nel solo settore automobilistico).
L’unico fattore che può insomma far ripartire un po’ di inflazione è il prezzo del petrolio e in genere dei prodotti energetici. Ma non si tratta di una fattore “sano”, fisiologico, perché in termini di contabilità nazionale è inflazione importata, che si scarica sui prezzi senza alcun riequilibrio interno tra i vari “fattori della produzione”. Anzi, un aumento del costo dell’energia in una fase di appiattimento prolungato dell’attività produttiva – dopo sette anni di cadute consistenti e di mezze “riprese” – rischia di diventare una mazzata insopportabile per molti comparti che stanno sopravvivendo con i margini di profitto ridotti all’osso.
Per questo, dunque, meglio non toccare i tassi di interesse. Si rischierebbe un corto circuito mortale in un ambiente che non scoppia, propriamente, di salute.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento