di Michele Paris
Dopo che la
metà degli stati americani ha ormai votato nelle primarie del Partito
Democratico e di quello Repubblicano per la scelta dei rispettivi
candidati alla Casa Bianca, i favoriti per la conquista della nomination
appaiono ormai virtualmente irraggiungibili dai loro rivali. Se la
marcia di Donald Trump potrebbe però incontrare ancora più di un
ostacolo prima dell’incoronazione alla “convention” della prossima
estate, tra i Democratici le cinque vittorie di martedì di Hillary
Clinton su altrettante sfide hanno quasi certamente spazzato via le
ambizioni presidenziali del suo unico sfidante, il senatore del Vermont
Bernie Sanders.
Per restare a galla, Sanders era atteso ad una
prova da molti giudicata decisiva dopo la sorprendente vittoria della
scorsa settimana in Michigan. Martedì erano chiamati a votare altri due
importanti stati industriali del Midwest con caratteristiche
demografiche ed economiche simili a quelle del Michigan, così che la
piattaforma progressista con cui Sanders si è presentato agli elettori
sembrava dover favorire proprio quest’ultimo.
Sanders ha invece
perso di misura in Illinois e piuttosto nettamente in quello che era lo
stato forse più cruciale della giornata elettorale, l’Ohio. In entrambi
gli stati, i sondaggi indicavano un Sanders vicinissimo a Hillary, ma il
sorpasso non si è alla fine materializzato nonostante l’aggressiva
campagna messa in atto negli ultimi giorni.
Non solo, Sanders ha
finito col perdere per una manciata di voti anche in Missouri, ovvero
l’unico stato dove era dato per favorito. Per completare la disfatta, a
queste tre sconfitte si sono poi aggiunte quelle ampiamente previste di
Florida e North Carolina, dove Hillary si è imposta rispettivamente con
32 e 14 punti percentuali di vantaggio.
Gli exit poll diffusi a
urne chiuse hanno sostanzialmente confermato la distribuzione dei voti
osservata finora nelle primarie Democratiche. Sanders ha prevalso tra i
giovani, i bianchi e i redditi più bassi, mentre Hillary tra i più
benestanti, i più anziani e gli appartenenti alle minoranze etniche. A
fare la differenza è stato l’insufficiente livello di mobilitazione dei
potenziali elettori di Sanders e probabilmente, come ha suggerito la
testata on-line Politico.com, il sostegno più massiccio garantito alla
Clinton in Ohio rispetto al Michigan dalle organizzazioni sindacali.
La
ormai sempre più probabile vittoria di Hillary Clinton e il relativo
fallimento di Bernie Sanders, il quale partiva in effetti da una
posizione decisamente svantaggiata, confermano in maniera poco
sorprendente l’impossibilità di creare all’interno del Partito
Democratico un movimento per il cambiamento in senso progressista del
sistema politico e della società americana.
Il team di Sanders ha
cercato martedì di proiettare comunque una certa fiducia malgrado la
collezione di sconfitte della serata. Teoricamente, i prossimi
appuntamenti in calendario consistono in competizioni in grandi stati
dove il senatore del Vermont potrebbe fare bene, anche se, in realtà, la
brusca battuta d’arresto di questa settimana e, soprattutto, la
matematica rendono illusorie le ipotesi su un possibile percorso per lui
ancora aperto verso la nomination.
Hillary Clinton ha infatti un
vantaggio in termini di delegati ormai incolmabile, visto anche il
fatto che le primarie del Partito Democratico prevedono l’assegnazione
di essi col metodo proporzionale. Anche giungendo eventualmente dietro a
Sanders nelle più importanti sfide che restano, l’ex segretario di
Stato sarebbe dunque in grado di ottenere un numero significativo di
delegati e impedire la chiusura del divario che la separa dal rivale.
Com’è
noto, nelle primarie americane i candidati dei due partiti competono
per aggiudicarsi il sostegno della maggioranza dei delegati in palio in
ogni singolo stato. Questi delegati voteranno poi per assegnare
formalmente la nomination del partito nel corso della “convention” in
base ai risultati delle primarie o dei caucuses. Oltre al gruppo dei
delegati con vincolo di voto (“pledged delegates”) ne esiste un altro
meno numeroso i cui membri hanno totale libertà di voto (“superdelegati”
o “unpledged delegates”) e sono solitamente corteggiati dai candidati
per ottenere il loro sostegno.
Secondo il conteggio tenuto dalla Associated Press,
la Clinton ha ad oggi in tasca l’appoggio di 1.599 delegati, di cui 467
“superdelegati”, contro gli 844, di cui appena 26 “superdelegati”, di
Sanders. Per assicurarsi matematicamente la nomination Democratica è
necessario un totale di 2.383 delegati.
Per il Partito
Repubblicano, Donald Trump ha allungato la sua serie di vittorie,
cedendo martedì soltanto l’Ohio all’attuale governatore di questo stato,
John Kasich, e mancando perciò la probabile occasione di chiudere quasi
definitivamente i giochi per la nomination. Per Kasich si tratta della
prima vittoria in queste primarie e, se anche gode del favore di molti
all’interno dell’establishment Repubblicano, la sua campagna elettorale
può solo fungere da elemento di disturbo nei confronti di Trump oppure
da strumento per le sue ambizioni, verosimilmente per la nomina a
candidato alla vice-presidenza.
Oltre
che sull’Ohio, gli occhi della stampa e della politica USA erano
puntati martedì sulla Florida, dove il senatore di questo stesso stato,
Marco Rubio, ha incassato l’ennesima umiliazione, e senza dubbio la più
pesante, della sua infelice corsa alla Casa Bianca. Qui, Rubio ha
accusato un distacco di ben 19 punti percentuali da Trump e ha
inevitabilmente finito con l’abbandonare in maniera ufficiale la
competizione.
L’addio di Rubio lascia il suo partito in uno stato
di panico e confusione. Trump sembra infatti inarrestabile e i due
sfidanti rimasti in gara non offrono molte garanzie a una leadership che
vede con apprensione la candidatura del miliardario di New York. Il
senatore ultraconservatore del Texas, Ted Cruz, unico fin qui in grado
di battere Trump in un numero significativo di stati, è ugualmente poco
gradito ai vertici del partito e ai suoi principali sostenitori, mentre
Kasich, come già ricordato, non ha chances di recuperare terreno.
I
mesi che mancano alla convention di luglio, perciò, potrebbero essere
segnati per i Repubblicani da un crescente conflitto interno tra coloro
che intendono provare a impedire che Trump ottenga la nomination, magari
ribaltando il verdetto delle primarie se quest’ultimo non dovesse
ottenere la maggioranza assoluta dei delegati, e quelli che sembrano più
disposti ad accettare la sua candidatura in vista del voto di novembre.
L’emergere
di Donald Trump e Hillary Clinton come i probabili candidati alla Casa
Bianca rappresenta ad ogni modo la chiara manifestazione della profonda
crisi di legittimità che avvolge il sistema politico degli Stati Uniti.
Il dilagante malcontento, per non dire la rabbia, che attraversa ampie
fasce della popolazione americana, non trovando alcuno sbocco
autenticamente progressista, ha finito col favorire una sfida per la
presidenza che, salvo clamorose sorprese, sarà caratterizzata da due
candidati tra i più a destra della storia di questo paese.
Proprio per questa ragione, come ha ammesso con una certa apprensione mercoledì anche il New York Times
in un articolo dedicato all’analisi del voto del giorno precedente, con
Trump e Hillary forse per la prima volta in assoluto a contendersi la
presidenza USA saranno due candidati verso i quali la maggioranza della
popolazione nutre un aperto disprezzo.
L’eventuale nomination di
Trump sarebbe probabilmente la prima ottenuta per uno dei due principali
partiti americani da un candidato con tratti e proposte di natura
palesemente fascista. Con Hillary, invece, se pure i precedenti
candidati Democratici alla Casa Bianca non spiccavano per credenziali
progressiste, si assisterebbe al culmine della deriva reazionaria del
suo partito, visti i tratti profondamente guerrafondai e il totale
asservimento ai grandi interessi economico-finanziari che caratterizzano
da sempre la ex first lady e la sua famiglia.
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