Dopo il papà, l’amico. Nella seconda tranche dell’intervista esclusiva concessa al quotidiano La Repubblica, o forse cercata per opportunità diplomatiche, il presidente egiziano Al Sisi traccia un quadretto di politica estera concentrato sulla crisi libica, che lo preoccupa da vicino. Sa essere realista e inanella cinque questioni che ogni soggetto di buon senso, soprattutto con incarichi di governo, dovrebbe porsi su: presente e futuro in Libia; come rifondare le Forze armate di quel Paese; come gestire la sicurezza; quali bisogni della comunità libica assolvere; chi ricostruirà quella nazione. Sisi è preoccupato perché il fianco sinistro di quella che considera roba sua (l’Egitto) s’affaccia sul caos regnate a ovest, che non vede solo la presenza dell’Isis e di Alba libica, ma una miriade di gruppuscoli jihadisti (c’è chi ne ha contati oltre cento) che mescolano ideologia e banditismo, affarismo, tribalismo militante e militare. Centinaia di chilometri di deserto, incontrollabili da qualsiasi esercito in cui si possono infilare signorotti della guerra e criminali dal grilletto facile, come ha mostrato la tragica vicenda dei due italiani dipendenti dell’azienda Bonatti, rapiti e recentemente uccisi.
Sisi spezza la sua lancia per il collega generale Haftar. Un militare, un uomo forte, la casta che lobbizza e amoreggia con gli Stati Uniti, che come lui odia i Fratelli Musulmani e li combatte. Un soggetto con cui il presidente egiziano spera di stringere un patto almeno militare. Risponde a La Repubblica “Se forniamo armi e supporto all’esercito nazionale libico, può fare il lavoro molto meglio di chiunque altro…”, e aggiunge che non si può perdere ancora tempo prezioso per la messa in sicurezza di un’ampia fascia del Maghreb “ci vuole una strategia globale che non riguardi solo la Libia, ma affronti i problemi presenti in tutta la regione”. Problemi di sicurezza e migrazione clandestina, rivolta ai rifugiati bellici e ai migranti per fame, tutti diretti a nord verso il continente europeo. Una questione su cui la Ue si sta spaccando, ricevendo colpi da decisioni di leader (Orbán, Faymann, Gruevski) o da nuovi populisti (Petry) lanciati contro chi, come Angela Merkel, ha finora indirizzato le sorti politiche dell’Unione. Sui profughi Sisi si toglie pure il gusto di dare lezioni. Ci dice: “L’Egitto ospita cinque milioni di rifugiati che vengono da Libia, Iraq, Siria e Africa e noi non siamo ricchi e avanzati come l’Europa...”
“... Non li trattiamo come rifugiati ma dividiamo con loro quel poco che abbiamo trattandoli da fratelli. Quanta gente è morta nel viaggio verso un paese migliore dove vivere? Quelli che conosciamo e quelli di cui non sappiamo nulla, i morti sono senza nome…” Quindi l’assolo in questa vetrinetta offerta dal quotidiano che fu di Eugenio Scalfari. Un richiamo ‘evangelico’ (nello spirito non nella fede che il presidente professa profondamente islamica) “non abbandonate i poveri e i deboli, non voltate loro le spalle”, frase quantomeno contraddittoria se la pensiamo rivolta al suo operato. Nei due anni di potere Sisi ha concentrato l’attenzione su sicurezza e grandi opere (il secondo canale di Suez) ma nulla ha mosso per affrontare il tema dell’equità sociale interna. Non si sono visti passi verso una redistribuzione della ricchezza per limitare la gestione di un’economia esclusiva nelle mani di tycoon privati e delle stesse Forze Armate che s’accaparrano ogni appalto pubblico e privato stabilito dal Paese con partner esteri. L’Eni è uno di questi. Quindi l’amico ricorda di non tralasciare “la necessaria umanità”. Restando umano pensate che il generale si convertirà rivelando i retroscena sull’omicidio Regeni e su quello di migliaia di egiziani?
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