di Michele Paris
Il sostanziale epilogo delle primarie Democratiche per la presidenza
degli Stati Uniti è stato degnamente suggellato questa settimana dallo
stesso genere di manovre messe in atto fin dallo scorso anno dai vertici
del partito e dalla stampa ufficiale “liberal” per garantire
l’assegnazione della nomination alla candidata di gran lunga favorita
dall’establishment, Hillary Clinton.
A giudicare dai sondaggi che
erano circolati nei giorni precedenti il voto di martedì, il senatore
del Vermont, Bernie Sanders, era dato nettamente in vantaggio in quattro
dei sei stati chiamati alle urne, mentre la sfida in California
sembrava doversi risolvere in un testa a testa. Alla fine, Sanders ha
prevalso solo in Montana e nei “caucuses” del North Dakota, mentre l’ex
segretario di Stato ha messo le mani, oltre che sulla California con un
margine di ben 13 punti percentuali, su New Mexico, South Dakota e, come
previsto, New Jersey.
Il raffreddamento degli entusiasmi dei
sostenitori di Sanders appare dunque chiaro ed è stato dovuto in larga
misura al clima di inevitabilità creato da media e politici Democratici
attorno alla candidatura di Hillary Clinton. Clamorosa è stata
soprattutto la decisione presa lunedì dalla Associated Press di
annunciare l’ormai certa conquista della nomination da parte di Hillary
in seguito a un riconteggio, per mano della stessa agenzia di stampa e
dal tempismo infallibile, del numero di delegati raccolti dai due
aspiranti alla Casa Bianca.
Hillary aveva vinto nelle primarie di
Porto Rico e nei “caucuses” delle Isole Vergini nel fine settimana, ma
l’incoronazione dell’autorevole agenzia di stampa americana è stata
possibile solo tenendo in considerazione l’orientamento di voto dei
“superdelegati” Democratici, quelli cioè non assegnati dal voto popolare
nei singoli stati.
I “superdelegati”, ovvero membri del
Congresso o esponenti di spicco del partito, hanno diritto di scegliere
liberamente il candidato da appoggiare alla convention. Tuttavia,
nonostante la maggior parte avesse deciso di schierarsi dalla parte
della Clinton, essi hanno facoltà di cambiare idea fino alla votazione
ufficiale dell’assemblea dei delegati durante la convention. Per questa
ragione, tecnicamente la competizione alla vigilia delle primarie di
martedì era ancora aperta e la notizia della vittoria di Hillary
circolata con un giorno di anticipo ha molto probabilmente influito sui
risultati finali.
L’uscita della Associated Press è
stata subito ripresa dalle altre testate negli Stati Uniti. Hillary e il
suo team hanno invece invitato ad attendere l’esito del voto, ben
sapendo però che la notizia sarebbe stata sufficientemente amplificata
dalla stampa americana.
Se e quali macchinazioni recenti e meno
recenti a favore della ex first lady siano risultate decisive nel
decidere l’assegnazione della nomination per il Partito Democratico è
difficile da valutare. Certo è che l’atteggiamento dei leader
Democratici e dei media in questa tornata elettorale negli USA ha
fornito indicazioni interessanti sullo stato del partito e della sua
candidata alla presidenza.
L’ansia di liquidare Sanders e di
dichiarare chiuse le primarie a favore di Hillary, ad esempio, non
indica affatto la forza di quest’ultima, bensì al contrario l’estrema
debolezza della sua candidatura. Il protrarsi della sfida tra i
Democratici ha rischiato cioè di esporre sempre più la vera natura di
Hillary, vista giustamente con avversione dalla maggior parte degli
americani, e di favorire il candidato Repubblicano, Donald Trump.
La
fragilità di Hillary e l’insofferenza di decine di milioni di americani
nei suoi confronti l’avevano spinta un paio di settimane fa anche a
rifiutare la proposta di Sanders di apparire in un ultimo dibattito
televisivo prima della fine delle primarie. Hillary aveva valutato che
un evento nel quale il suo rivale avrebbe potuto attaccarla per il suo
curriculm politico reazionario si sarebbe risolto in un disastro per la
sua immagine.
La
permanenza di Sanders nella corsa ha anche contribuito al processo di
radicalizzazione dell’elettorato Democratico, già galvanizzato dalla
campagna di un candidato presentatosi con un programma progressista e
addirittura auto-definitosi “democratico-socialista”. Questa tendenza
potrebbe minacciare una diserzione di una parte degli elettori del
partito a novembre, tutt’altro che disposti a turarsi il naso e a votare
una candidata legata a doppio filo con Wall Street e l’apparato
militare e della sicurezza nazionale americano.
Per prevenire uno
scenario di questo genere, Sanders sarà sollecitato a svolgere fino in
fondo il ruolo che la sua candidatura doveva avere fin dall’inizio,
ovvero quello di convogliare l’opposizione delle classi più disagiate
verso il Partito Democratico, impedendo che essa prenda una qualche
forma autonoma e alternativa all’attuale sistema politico di Washington.
Sanders
non ha per il momento riconosciuto la sconfitta e ha anzi invitato i
suoi sostenitori nella capitale degli Stati Uniti a recarsi alle urne
per l’ultima tappa delle primarie 2016 che si terrà martedì prossimo
proprio a Washington. Il senatore del Vermont ha però richiesto e
ottenuto un faccia a faccia con il presidente Obama giovedì, nel quale
verosimilmente i due discuteranno le mosse necessarie a “unificare” il
Partito Democratico attorno a Hillary Clinton.
Svanite le chances
di nomination, a Sanders non resterà che cercare di trasferire il suo
capitale politico dalla sfida con la rivale all’impegno per la
definizione della piattaforma programmatica del partito. In realtà, la
linea del Partito Democratico rimarrà invariabilmente “pro-business” a
prescindere da quanto verrà proposto durante la convention di luglio a
Philadelphia. Tuttavia, anche per non apparire troppo remissivo di
fronte a Hillary e ai vertici del partito dopo una battaglia durata
mesi, Sanders finirà per promuovere l’illusione di un Partito
Democratico in grado di guardare ai bisogni di lavoratori e classe
media, spingendo per l’adozione di alcune sue proposte di stampo
progressista.
In questo modo, Sanders riuscirà a giustificare il
suo appoggio alla Clinton, assicurando a quest’ultima il voto a novembre
della maggior parte dei suoi sostenitori. Hillary, da parte sua, potrà
imprimere l’attesa svolta a destra della sua campagna elettorale, così
da provare a intercettare i voti degli elettori Repubblicani non
intenzionati ad appoggiare Trump.
L’altro pilastro della
strategia di Hillary per le presidenziali vere e proprie sarà l’accento
sulla natura “storica” della candidatura della prima donna alla Casa
Bianca per uno dei due principali partiti americani. La nomination della
ex first lady è già stata festeggiata con toni trionfali, e a tratti
disonesti e ripugnanti, da quasi tutti i media ufficiali negli USA e non
solo.
Il New York Times,
ad esempio, è uscito mercoledì con un apposito editoriale per celebrare
l’evento, definito una “pietra miliare” per i diritti delle donne,
lasciando intendere che la sola presenza sulle schede elettorali di un
candidato di sesso femminile, ancorché guerrafondaio, reazionario e al
servizio di ricchi e potenti, costituisca un qualche progresso per la
società.
La fissazione “liberal” sulle questioni di genere e di
razza era apparsa già evidente nel 2008 dopo la conquista per la prima
volta da parte di un politico di colore della nomination Democratica e
poi della presidenza. Il totale abbandono delle pretese riformiste di
quell’esperienza elettorale si sarebbe tradotto in conflitti sanguinosi,
crimini di guerra, smantellamento dei diritti democratici e dei
lavoratori, cioè precisamente quanto è di nuovo in serbo per gli
americani e il resto del pianeta in caso di vittoria a novembre della
candidata Hillary Clinton.
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