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01/06/2016

Il Belgio, spaccato, in rivolta contro il Jobs Act di Bruxelles

Qualcuno dice che è il contagio francese ad essersi esteso anche al vicino Belgio, come se i lavoratori del piccolo stato cuscinetto con la Germania non fossero in possesso di una volontà propria.

Fatto sta che ormai da alcune settimane il Belgio è interessato da una inedita raffica di manifestazioni e di scioperi contro una legge del governo federale che somiglia tanto alla Loi Travail di Valls e quindi, ovviamente, al Jobs Act renziano.

“A noi i sacrifici, a voi i benefici” è stato lo slogan che ha caratterizzato ieri la manifestazione realizzata da circa quindicimila lavoratori scesi per le strade per protestare contro la “riforma” peggiorativa del settore pubblico in occasione dello sciopero convocato nel settore pubblico e nei trasporti. L’agitazione dei sindacati dell’amministrazione pubblica ha bloccato l’attività dei ministeri, delle scuole, la raccolta dei rifiuti, la distribuzione della posta, i trasporti nazionali e locali.

La scorsa settimana erano stati ben 60 mila i manifestanti che hanno invaso le strade di Bruxelles, una marcia sfociata in duri scontri con i reparti antisommossa della polizia e saldatasi con numerosi feriti e arresti.

Da qualche tempo gli scioperi indetti da tutti e tre i maggiori sindacati del paese coinvolgono anche i controllori di volo, i secondini delle carceri ed altri comparti ancora. La legge Peeters, presentata dal governo di centro-destra guidato dal premier Charles Michel, rappresenta “l’assassinio del settore pubblico” accusano i sindacati. “Se lo stato non ci ascolterà, allora sarà la guerra e andremo fino alla fine” ha minacciato Michel Meyer, presidente della Cgsp.

Le proteste stanno paralizzando soprattutto la Vallonia, la regione del Belgio abitata dai francofoni, sui quali le politiche a base di austerità impattano maggiormente che sui fiamminghi, soprattutto per quanto riguarda i tagli al bilancio sociale, alle pensioni e al sussidio di disoccupazione.

Ieri, in occasione dello sciopero quasi generale convocato da tre sigle – il sindacato socialdemocratico, quello cattolico e quello liberale –  il Sud francofono ha reagito in maniera più compatta rispetto al Nord fiammingo. I collegamenti ferroviari erano totalmente bloccati in Vallonia, mentre erano assicurati al 30-40% nelle Fiandre. Già la scorsa settimana, e senza preavviso, i ferrovieri della sezione vallone della SNCB – la società di trasporto su ferro – avevano bloccato i treni nella parte meridionale del paese ma i loro colleghi delle Fiandre non li avevano seguiti.

Le forze politiche liberiste e la grande stampa – non solo quella belga ma anche quella europea – tentano di mettere l’accento sulla diversa condizione socio-economica delle due regioni del Belgio (spinte ormai l’una lontano dall’altra da una dinamica centenaria recentemente rafforzatasi) e di soffiare strumentalmente sulla tradizionale rivalità tra valloni e fiamminghi, additando le agitazioni sindacali come il frutto della degenerazione di una stato definito “fallito” o “disfatto”. Nei giorni scorsi il primo presidente della Corte di Cassazione, Jean de Codt, ha addirittura definito il Belgio “uno Stato canaglia”.

Una colpevolizzazione del paese che si è fatta insistente subito dopo gli attentati di Bruxelles e che mette in evidenza la doppia esigenza, da parte dell’establishment dell’Unione Europea, di mettere le mani sull’insieme di uno stato effettivamente debole ma che ospita la ‘capitale’ continentale, e al tempo stesso di aumentare il controllo sulle due regioni sempre più indipendenti l’una dall’altra rafforzandone l’autonomia e la conflittualità in modo da evitare che facciano fronte comune rappresentando così un potenziale ostacolo ai progetti iperliberisti e autoritari del governo europeo. I poteri forti interni ed europei accusano il Belgio di essere una ‘democrazia consociativa’ e la sua classe dirigente di essere ‘troppo incline al compromesso’, di opporre una strenua resistenza alle “riforme” imposte da Bruxelles (intesa come sede dell’establishment dell’Ue) se non altro in nome della necessità della mediazione non tanto con le parti sociali ma tra le due anime nazionali-linguistiche – in realtà tre contando anche la comunità germanofona – che compongono il complicato puzzle.

E’ sicuramente vero che molti valloni non si sentono rappresentati da un governo federale formato da tre partiti fiamminghi – i liberali di Open VLD, i democristiani della CD&V , i nazionalisti-autonomisti della N-VA – e da una sola forza politica francofona – i liberali del MR. Ma anche se nelle Fiandre finora la risposta alle politiche governative è stata minore anche grazie alla minore mobilitazione delle sigle sindacali in parte legate ad un ‘esecutivo fiammingo’, è anche vero che il carattere draconiano delle nuove leggi in gestazione è sotto gli occhi di tutti, compresi gli abitanti e i lavoratori del nord.

A guardare gli obiettivi delle norme implementate dall’esecutivo si capisce quanto importante sia la posta in gioco: aumentare la produttività e la competitività delle aziende elevando nettamente l’orario e i ritmi di lavoro, ridurre le imposte alle imprese, tagliare la spesa sociale già decurtata ampiamente negli ultimi anni, privatizzare molte aziende pubbliche o municipalizzate.

E infatti la reazione non è stata di circostanza: una tale sfilza di scioperi e manifestazioni non si vedeva nel paese dal lontano 1986.

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