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03/08/2016

Riforma Renzi: l’elezione del Presidente della Repubblica

Il testo della riforma modifica sensibilmente la figura del Presidente della Repubblica per effetto del “combinato disposto” fra legge elettorale e riforma costituzionale.

Sinora la composizione del collegio elettorale per il Capo dello Stato prevedeva 630 deputati, 320 Senatori (315+ quelli a vita , oltre gli ex Presidenti) e 58 consiglieri regionali, per un totale di circa 1.008-10 grandi elettori, per cui la maggioranza assoluta era di 505-6.

Già l’introduzione del maggioritario ha sbilanciato fortemente la partita a favore della maggioranza governativa, ma questo trovava un limitato contrappeso nel Senato eletto “su base regionale”, per cui la maggioranza di governo era sempre più risicata che alla Camera, e nei 58 consiglieri regionali che, il più delle volte, erano divisi quasi a metà fra maggioranza ed opposizione; peraltro, la maggioranza era costantemente composta da più partiti coalizzati e, per l’elezione del Capo dello Stato, il vincolo di maggioranza non sussisteva, senza contare il ruolo dei franchi tiratori che spezzavano la disciplina di partito. Per cui, pure avvantaggiata dal sistema maggioritario, la coalizione vincente trovava diversi limiti e la partita dell’elezione era ancora abbastanza aperta, come ha dimostrato la tormentata scadenza del 2013 terminata con la rielezione di Napolitano dopo che il Pd si era frantumato per il ruolo dei franchi tiratori. La norma prevedeva una maggioranza dei 2/3 nelle prime votazioni, quella assoluta degli aventi diritto dalla quarta in poi. Salvo rarissime eccezioni (De Nicola nel 1946, Cossiga nel 1985) il Presidente è sempre stato eletto dalla quarta votazione in poi.

Nel nuovo Parlamento in seduta comune, che in totale conterebbe 730 membri (non ci sono più i 58 rappresentanti delle regioni ed i senatori sono solo 100, più gli ex Presidenti della Repubblica)  la maggioranza richiesta è di 2/3, come prima, per i primi tre scrutini, del 60% dal quarto al sesto e la maggioranza assoluta (dei votanti e non degli aventi diritto) dal settimo quando basterebbero 366-7 voti qualora votassero tutti.

Considerando che con l’Italicum il partito di maggioranza dispone già di 354 seggi alla Camera, questo significa che, con altri 12-13 voti esso, dalla settima votazione, potrebbe eleggersi il Presidente da solo. Anche perché è del tutto improbabile che il partito di maggioranza alla Camera, non disponga almeno di 1/3 dei 95 senatori provenienti dagli enti locali, il che significa una quota aggiuntiva di altri 31-32 voti cioè un pacchetto di partenza di almeno 385-6 voti, cioè una ventina in più di quelli necessari. Ovviamente, a condizione che il gruppo parlamentare di maggioranza resti compatto e non si decomponga.

Pertanto, al vantaggio precostituito del partito di maggioranza, vengono meno tanto il contrappeso del Senato ma, soprattutto, viene meno il freno della coalizione, dato che il premio va al singolo partito che, in linea generale, può esercitare più efficacemente il vincolo disciplinare.
Detto in parole povere, l’unica insidia possibile sulla strada del “Presidente di partito” è la “congiura dei boiardi”, cioè il ruolo dei franchi tiratori interni al partito.

Dunque, l’elezione del Presidente sarebbe decisa sostanzialmente da una maggioranza che, con ogni probabilità, rappresenterebbe solo una minoranza degli elettori. Pertanto avremmo un Presidente la cui genesi ne comprometterebbe dal nascere il ruolo arbitrale e di garante della Costituzione. Di fatto, godrebbe dell’autorevolezza di un qualsiasi funzionario di partito.

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