di Michele Paris
A pochi mesi dalla sua definitiva uscita di scena, il presidente
americano Obama ha aggiunto questa settimana una nuova voce al suo già
lungo elenco di guerre scatenate, ereditate o intensificate a partire
dal 2009. I bombardamenti iniziati lunedì sulla città di Sirte, in
Libia, per stessa ammissione del Pentagono segnano l’avvio di un’altra
“campagna prolungata”, ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS), e
sembrano rappresentare l’esito più appropriato del dibattito interno al
Partito Democratico negli Stati Uniti durante e dopo la recente
convention di Philadelphia, caratterizzata da un’impronta insolitamente
patriottica e guerrafondaia.
A livello formale, l’intervento
americano è stato richiesto dal primo ministro libico, Fayez al-Sarraj,
dopo che le fazioni armate alleate del suo “governo di accordo
nazionale” stanno combattendo da mesi gli uomini del “califfato” nella
città dove Gheddafi era stato barbaramente assassinato nell’autunno del
2011. A Sirte, i militanti fondamentalisti avevano fissato il proprio
quartier generale in Libia a partire dallo scorso anno e le loro
postazioni erano già state colpite da sporadiche incursioni americane,
tra cui la più recente, almeno tra quelle riconosciute ufficialmente,
nel mese di febbraio.
L’inaugurazione della nuova campagna
militare americana in Libia è stata accompagnata dalle solite manovre di
propaganda che avevano segnato le precedenti avventure belliche
all’estero. La giustificazione per l’intervento, ad esempio, è stata
ancora una volta la necessità di combattere forze terroristiche come
l’ISIS.
In realtà, il caos che sta vivendo Sirte e l’intera Libia
è il risultato proprio del disastroso precedente intervento occidentale
nel 2011 per rovesciare il regime di Gheddafi. Gli Stati Uniti e i loro
alleati appoggiarono una “rivoluzione” immaginaria nel paese
nord-africano, contando su gruppi di ispirazione apertamente
fondamentalista.
Alla caduta di Gheddafi, mentre la Libia
precipitava nell’anarchia e nelle violenze di innumerevoli milizie
armate, la CIA avrebbe poi utilizzato il paese come base di partenza per
uomini e armi diretti in Siria con l’obiettivo di replicare lo stesso
schema destabilizzante ai danni del regime di Bashar al-Assad.
Questo
piano, assieme al contributo degli alleati americani nel Golfo Persico,
ha finito per favorire l’arrivo dell’ISIS in Libia, dove gli stessi
Stati Uniti intendono ora consolidare la propria presenza attraverso un
nuovo rovinoso conflitto.
La sconfitta dell’ISIS non è che un
obiettivo tutt’al più secondario per Washington e la profondissima crisi
in cui versa la Libia non sarà in nessun modo alleviata dalle bombe
americane. L’intervento sembra piuttosto doversi collegare
all’evoluzione del quadro mediorientale, segnato da sviluppi ben poco
favorevoli agli USA, dal cambio di rotta strategico di Erdogan in
Turchia ai successi delle forze russo-siriane contro i “ribelli”
sostenuti dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo.
A questi
eventi, l’amministrazione Obama intende rispondere in maniera tutt’altro
che rassegnata. L’assurda logica dell’apparato militare americano
prevede un’escalation bellica senza fine e, in quest’ottica, la guerra
bis in Libia potrebbe essere solo l’inizio di una nuova accelerazione
dell’impegno militare nell’immediato futuro, soprattutto in caso di
successo di Hillary Clinton nelle presidenziali di novembre.
Ugualmente
consolidate sono poi le modalità pseudo-legali con cui la nuova guerra è
stata lanciata in seguito alla decisione del presidente Obama. Come
l’intervento in Iraq e in Siria contro l’ISIS, anche i bombardamenti in
Libia non sono stati autorizzati da un voto del Congresso, come previsto
dalla Costituzione americana. La Casa Bianca ritiene d’altra parte che
ciò non sia necessario, dal momento che ormai praticamente ogni missione
di guerra sembra trovare un fondamento legale nella “Autorizzazione
all’Uso della Forza” (AUMF), approvata dal Congresso nel 2001, per
colpire i terroristi considerati responsabili degli attentati dell’11
settembre.
Ancora meno riguardo che per un Congresso tutto
sommato compiacente, il governo statunitense lo ha mostrato nei confronti dei propri cittadini. I preparativi per l’offensiva su Sirte in Libia, anche
se evidentemente in corso da tempo, non sono stati discussi o presentati
pubblicamente, tantomeno prima, durante o dopo la convention
Democratica.
Per bombardare l’ISIS in Libia, gli Stati Uniti
hanno avuto inoltre bisogno di una richiesta d’aiuto proveniente
dall’autorità governativa di questo paese. A livello formale ciò è
avvenuto, ma il concetto di governo nella Libia odierna risulta alquanto
sfumato. Il governo di unità nazionale del premier Sarraj è stato
imposto dalle potenze straniere in seguito a un “accordo” mediato dalle
Nazioni Unite per risolvere il conflitto tra due entità contrapposte che
rivendicavano il diritto di governare e legiferare.
La stessa
invenzione di un nuovo governo con pieni poteri aveva il preciso scopo
di istituire un’autorità riconosciuta internazionalmente che potesse chiedere un intervento militare esterno in Libia, dapprima
per far fronte all’emergenza rifugiati e più tardi alla minaccia
dell’ISIS.
Dopo mesi dall’arrivo a Tripoli, il governo di Sarraj
continua però a faticare a imporre la propria autorità e solo alcuni
gruppi armati gli hanno assicurato il proprio sostegno. Gli stessi
governi occidentali che lo hanno creato a tavolino mantengono - o hanno
mantenuto fino a poco tempo fa - un atteggiamento ambiguo.
Alcune registrazioni relative al controllo del traffico aereo sulla Libia, ottenute dalla testata on-line Middle East Eye
e pubblicate a inizio luglio, avevano rivelato come USA, Francia, Gran
Bretagna e Italia insistevano nel garantire il loro appoggio alle forze
del generale libico Khalifa Hiftar, nonostante a quest’ultimo fosse
stato chiesto ufficialmente di riconoscere il nuovo governo installato a
Tripoli.
Hiftar è un ex alto ufficiale dell’esercito di Gheddafi
diventato dissidente e “asset” della CIA. Dopo la caduta del regime, il
generale aveva lasciato l’esilio americano per tornare in Libia nel
tentativo di imporsi come nuovo uomo forte nel caos provocato
dall’intervento internazionale. Hiftar ha poi cominciato a svolgere un
ruolo importante nel combattere le milizie islamiste nell’est del paese e
proprio per questa ragione ha continuato a ottenere il supporto dei
governi occidentali malgrado il suo rifiuto a sottomettersi al gabinetto
guidato da Sarraj.
Secondo quanto dichiarato dai governi di
Libia e Stati Uniti, infine, l’intervento militare di Washington si
limiterà alle incursioni aeree, mentre non è previsto l’invio di truppe
da combattimento. Lo stesso primo ministro ha assicurato che le
operazioni “saranno limitate a Sirte e ai sobborghi della città” e il
supporto internazionale sul campo sarà soltanto di natura “tecnica e
logistica”.
Queste
rassicurazioni hanno tuttavia poco o nessun valore, vista anche la
totale dipendenza dall’Occidente del governo Sarraj, e servono solo a
contenere l’ostilità della popolazione libica verso un nuovo intervento
di forze straniere. Gli USA e i loro alleati stanno studiando infatti da
tempo la possibilità di inviare un contingente militare di terra in
Libia e, non appena saranno create le condizioni, ciò potrebbe avvenire
senza troppi impedimenti da parte delle autorità locali.
D’altra
parte, anche se clandestinamente, un certo numero di militari stranieri è
presente da tempo in Libia, come ha confermato la notizia
dell’uccisione di tre soldati delle forze speciali francesi in questo
paese, annunciata dal presidente Hollande il 21 luglio scorso.
La
vicenda aveva creato un certo imbarazzo a Parigi e aveva provocato la
dura condanna da parte di quello stesso primo ministro Sarraj che, meno
di due settimane più tardi, ha invocato le bombe americane sulla già
martoriata città di Sirte.
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