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02/12/2016

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Rottamare Maastricht, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma

Da qualche anno Derive Approdi sta rispondendo ad un’esigenza culturale e politica di confronto d’alto profilo sulla natura della crisi del capitalismo e sulle possibili vie d’uscita. Invece di sposare una posizione, ne mette sostanzialmente due a confronto: da una parte il filone foucaultiano-biopolitico dell’analisi del/sul potere liberale dei nostri giorni; dall’altra l’analisi marxista della crisi, le sue origini, le sue conseguenze economiche e politiche. Le due impostazioni sembrano trovare un terreno di confronto comune sull’Unione europea. E’ inevitabile che sia così: la Ue è la concretizzazione politica, economica ma anche culturale e “valoriale” che il capitalismo liberista assume nell’Europa oggi. Parlare di potere e di crisi non può che condurre ad una riflessione sulla costruzione europeista. E’ in questa direzione interpretativa che va inserita la pubblicazione di questo Rottamare Maastricht, un libro breve (186 pagine), composto di più saggi, che si offre come strumento per la comprensione delle storture dell’Unione europea intesa come progetto politico-economico fallato dalle sue fondamenta. L’obiettivo è dato sin dal titolo: rottamare i trattati europei, a cominciare da quello più cogente/coercitivo: Maastricht. Sul come, si aprono le interpretazioni più diverse, e i saggi proposti non arrivano (forse giustamente) a sintesi. Non è però questo che si chiede ad uno strumento di comprensione del presente. La soluzione non potrà che arrivare da un processo collettivo che imporrà una sintesi politica autorevole alle diverse interpretazioni dell’Unione europea. Dal nostro punto di vista, questa non potrà che passare dalla rottura qualsiasi essa sia della Ue, ma sul tema c’è ancora fermento a sinistra.

Il libro, in felice assonanza con una mole crescente di pubblicazioni, ha la spregiudicatezza di individuare il problema politico dei nostri tempi nell’Unione europea, non fermandosi alla mera constatazione della Ue come potere illiberale/liberista (davvero troppo semplice), ma ribadendo che non c’è riformabilità senza rottura dei Trattati della Ue, che poi sarebbe la rottura della Ue stessa. Nell’introduzione è specificata la contraddizione manifesta tra Ue e democrazia: “il grande sogno dell’unità europea ha finito per legittimare un ordine gerarchico frontalmente contrapposto alla democrazia e ai diritti del lavoro”, mettendo così in chiaro che siamo in presenza di un aut aut inaggirabile: o rafforziamo la democrazia (che si sostanzia nella redistribuzione dei redditi), o rafforziamo il progetto europeista. Fare queste due cose contemporaneamente non è possibile. E questo perché, “poiché la dimensione europea è stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale”. La questione della sovranità nazionale, a sinistra, continua a tornare, segno che i ragionamenti stanno convertendosi alla realtà dai decenni di utopismi tristi complici dell’attuale fase politica.

Sulla questione nazionale esiste, nel marxismo, un profondo dibattito, in parte andato perso e in parte in fase di recupero. Bisognerebbe però sgomberare il campo da una serie di equivoci che inquinano i pozzi della dialettica progressista. In primo luogo, non siamo in presenza di alcuna “scomparsa” dello Stato nazionale. Dato per morto da certi soloni della politica radical, lo Stato, in virtù del processo ordoliberale attorno a cui ruota la costruzione europeista, da diversi decenni, è in fase di costante rafforzamento del suo ruolo giuridico di controllo, gestione, coercizione e repressione della popolazione. Il liberismo del XXI secolo non è “neoliberismo” – non procede cioè verso lo “Stato minimo” d’impostazione ottocentesca o di scuola austriaca – ma ordoliberalismo. Semmai, è lo Stato come “attore economico” a dileguarsi. E’ la presenza dello Stato – cioè della politica – nell’economia che è andata incontro ad un processo di rimodellamento che ne sta decretando la rapida scomparsa. Non esiste politica progressiva, anche solo riformista, che non passi per il recupero delle prerogative economiche dello Stato. Qualunque posizione politica eluda questo tema contribuisce alla confusione generalizzata sul tema Unione europea. La dialettica non è allora tra Unione europea e *ritorno* agli Stati nazionali, visto che quegli stessi Stati vivono e vegetano (e prosperano) nella loro dimensione storica, ma il *recupero* del ruolo della politica nel dirigere i processi economici, e non subirli adeguandosi al ruolo di facilitatrice delle tendenze del libero mercato. In questo l’insieme dei saggi raccolti nella pubblicazione è chiaro e, ci sentiamo di poter aggiungere, difficilmente smentibile: “premessa essenziale di qualsiasi evoluzione positiva è la condanna e il rigetto aperti della governance che configura la Ue come uno stato di polizia economica”. Non c’è alternativa politica che non passi per il “recupero del rapporto tra democrazia e sovranità”, oggi completamente saltato non perché sarebbe venuta meno la sovranità, ma perché questa non risiede più nella rappresentanza politica ma nelle tecnostrutture finanziarie a-nazionali della Ue.

Che l’obiettivo dell’Unione europea sia d’altronde quello di uno svuotamento in senso liberista della sovranità statuale è detto espressamente da Guido Carli, all’epoca della stipula del Trattato di Maastricht Ministro del Tesoro, in un suo libro di memorie edito nel 1993:

l’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione responsabile che restringe il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio di gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi”.

Potrebbe sembrare un volantino di agitazione per una qualche manifestazione politica o sindacale, e invece è l’elogio di un alto dirigente che capì prima di altri la funzione della Ue come grimaldello per lo scardinamento dello Stato come attore economico nella vita dei cittadini.

Ora, se la perdita di questo ruolo certifica (non fosse altro che per pragmatica valutazione di questo trentennio) un regresso generalizzato delle condizioni di vita; se il recupero di questa funzione si caratterizza inevitabilmente come elemento progressivo per le popolazioni del continente, almeno quelle sottoposte ai diktat europeisti; se, insomma, il discorso non è far tornare indietro le lancette della storia, ma rivendicare un ruolo progressivo del pubblico contro il privato, allora ci domandiamo: perché le posizioni politiche di chi rivendica la lotta volta a ristabilire il primato del pubblico e della politica sul privato, i mercati e l’economia, è vista come “regressiva” a sua volta, “sovranista” o “nazionalista”, quando in realtà di “sovranismo” è impregnata quella stessa politica europeista vista come “male minore” rispetto al (presuntissimo) “ritorno” agli Stati nazionali?

Sbaglieremmo però a vedere dietro la costruzione europeista una volontà politica. Questa, sebbene sia presente, è ancillare rispetto alla necessità economica che impone agli Stati membri, e soprattutto alla Germania, di perseguire l’obiettivo europeista. I tre saggi finali del testo svelano il nesso inscindibile tra Unione europea e capitalismo tedesco:

l’atteggiamento punitivo che la Germania assume nel quadro di Maastricht verso la grande maggioranza dei paesi Ue non è solo un dato di volontà politica. Ha le sue radici in un modello di sviluppo strutturato sulla progressiva sostituzione della domanda interna con l’aumento della domanda estera, che provoca, in termini di distribuzione del reddito, un contenimento crescente del ruolo trainante del salario. In ragione di questa configurazione, la più forte economica europea, nel lungi dallo svolgere il ruolo di locomotiva tante volte auspicato, opera come fattore di freno per l’intera eurozona. Siamo in altri termini dinanzi a un vero e proprio capovolgimento del modello egemonico Usa che all’indomani del 1945 ha fatto dell’espansione del proprio mercato interno il fattore propulsivo per l’intero sistema”.

L’Unione europea conviene alla Germania, perché senza l’Euro la Germania avrebbe una moneta notevolmente apprezzata che le impedirebbe di fatto di reggere il confronto competitivo con le monete nazionali di altri Stati a vocazione manifatturiera, come ad esempio l’Italia. Il vantaggio competitivo tedesco è allora viziato da una propensione mercantilista (volta cioè a favorire le esportazioni al posto della domanda interna), possibile però solamente grazie alla Ue e alla moneta unica, che determina una parità forzata di condizioni finanziarie tra i membri aderenti, in presenza però di economie differenti e diversi stadi di produttività. E’ la Germania il vero malato d’Europa, un malato che vampirizza le economie meno produttive desertificandole industrialmente e carpendo i vantaggi della ritirata industriale dei suoi competitors. Un potere contrattuale basato, peraltro, sulle riforme del proprio mercato del lavoro (le riforme Hartz targate centrosinistra) che, lungi dalle vulgate mediatiche, fondano la produttività tedesca sul working poor, la precarietà lavorativa, sulla moderazione salariale e sugli incentivi statali. Dinamiche queste che stanno producendo il paradosso per cui è la produzione dei paesi satelliti della Germania (il gruppo Visegrad) che delocalizza nella stessa Germania, che gode ormai di vantaggi competitivi talmente elevati da risultare efficiente e conveniente anche rispetto ai mercati del lavoro dell’Europa orientale.

Anche questo libro rimane sospeso nel tratteggiare soluzioni politiche possibili. Non c’è alcuna conclusione inevitabile al ragionamento proposto. L’uscita unilaterale dalla Ue, sebbene vista da alcuni autori come passaggio necessario al recupero di una dimensione politica in cui quantomeno giocarsi la partita, manca di definizione credibile per poter essere valutata. L’uscita “dal basso e da sinistra”, che altri autori indicano, è una suggestione più che una proposta di lavoro, visto lo stato comatoso delle sinistre nel continente. E che, soprattutto, non tiene in conto che questa uscita (o questa rottura generale), ad oggi è più probabile che avvenga da destra e dall’alto più che da sinistra e dal basso. Su una cosa invece il discorso appare convincente: “il monopolio che il populismo detiene della critica della situazione esistente fa si che il sistema consegua nuova legittimazione. Se non si spezza la tenaglia che si è creata, con l’austerità da un lato e il populismo dall’altra, qualsiasi nuova opportunità creata dalla crisi andrà perduta”. Questa è una logica inaggirabile e decisiva: per sottrarre ai populismi regressivi il monopolio dell’opposizione, bisogna raccogliere la sfida ricalibrando in senso progressivo (e magari rivoluzionario) la parole d’ordine della resistenza al sovranazionalismo europeista.

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