Da qualche anno Derive Approdi sta rispondendo ad
un’esigenza culturale e politica di confronto d’alto profilo sulla
natura della crisi del capitalismo e sulle possibili vie d’uscita.
Invece di sposare una posizione, ne mette sostanzialmente due a
confronto: da una parte il filone foucaultiano-biopolitico dell’analisi
del/sul potere liberale dei nostri giorni; dall’altra l’analisi marxista
della crisi, le sue origini, le sue conseguenze economiche e politiche.
Le due impostazioni sembrano trovare un terreno di confronto comune
sull’Unione europea. E’ inevitabile che sia così: la Ue è la
concretizzazione politica, economica ma anche culturale e “valoriale”
che il capitalismo liberista assume nell’Europa oggi. Parlare di potere e
di crisi non può che condurre ad una riflessione sulla costruzione
europeista. E’ in questa direzione interpretativa che va inserita la
pubblicazione di questo Rottamare Maastricht, un libro breve
(186 pagine), composto di più saggi, che si offre come strumento per la
comprensione delle storture dell’Unione europea intesa come progetto
politico-economico fallato dalle sue fondamenta.
L’obiettivo è dato sin dal titolo: rottamare i trattati europei, a
cominciare da quello più cogente/coercitivo: Maastricht. Sul come, si
aprono le interpretazioni più diverse, e i saggi proposti non arrivano
(forse giustamente) a sintesi. Non è però questo che si chiede ad uno
strumento di comprensione del presente. La soluzione non potrà che
arrivare da un processo collettivo che imporrà una sintesi politica
autorevole alle diverse interpretazioni dell’Unione europea. Dal nostro
punto di vista, questa non potrà che passare dalla rottura qualsiasi essa sia della Ue, ma sul tema c’è ancora fermento a sinistra.
Il libro, in felice assonanza con una mole crescente di
pubblicazioni, ha la spregiudicatezza di individuare il problema
politico dei nostri tempi nell’Unione europea, non fermandosi alla mera
constatazione della Ue come potere illiberale/liberista (davvero troppo
semplice), ma ribadendo che non c’è riformabilità senza rottura dei
Trattati della Ue, che poi sarebbe la rottura della Ue stessa.
Nell’introduzione è specificata la contraddizione manifesta tra Ue e
democrazia: “il grande sogno dell’unità europea ha finito per
legittimare un ordine gerarchico frontalmente contrapposto alla
democrazia e ai diritti del lavoro”, mettendo così in chiaro che siamo in presenza di un aut aut inaggirabile:
o rafforziamo la democrazia (che si sostanzia nella redistribuzione dei
redditi), o rafforziamo il progetto europeista. Fare queste due cose
contemporaneamente non è possibile. E questo perché, “poiché
la dimensione europea è stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei
confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico
si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e
irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della
sovranità nazionale”. La questione della sovranità nazionale, a
sinistra, continua a tornare, segno che i ragionamenti stanno
convertendosi alla realtà dai decenni di utopismi tristi complici
dell’attuale fase politica.
Sulla questione nazionale esiste, nel marxismo, un profondo
dibattito, in parte andato perso e in parte in fase di recupero.
Bisognerebbe però sgomberare il campo da una serie di equivoci che
inquinano i pozzi della dialettica progressista. In primo luogo, non
siamo in presenza di alcuna “scomparsa” dello Stato nazionale. Dato per
morto da certi soloni della politica radical, lo Stato, in
virtù del processo ordoliberale attorno a cui ruota la costruzione
europeista, da diversi decenni, è in fase di costante rafforzamento del
suo ruolo giuridico di controllo, gestione, coercizione e repressione
della popolazione. Il liberismo del XXI secolo non è “neoliberismo” –
non procede cioè verso lo “Stato minimo” d’impostazione ottocentesca o
di scuola austriaca – ma ordoliberalismo. Semmai, è lo Stato come
“attore economico” a dileguarsi. E’ la presenza dello Stato – cioè della
politica – nell’economia che è andata incontro ad un processo di
rimodellamento che ne sta decretando la rapida scomparsa. Non esiste
politica progressiva, anche solo riformista, che non passi per il recupero delle
prerogative economiche dello Stato. Qualunque posizione politica eluda
questo tema contribuisce alla confusione generalizzata sul tema Unione
europea. La dialettica non è allora tra Unione europea e *ritorno* agli
Stati nazionali, visto che quegli stessi Stati vivono e vegetano (e
prosperano) nella loro dimensione storica, ma il *recupero* del ruolo
della politica nel dirigere i processi economici, e non subirli
adeguandosi al ruolo di facilitatrice delle tendenze del libero mercato.
In questo l’insieme dei saggi raccolti nella pubblicazione è chiaro e,
ci sentiamo di poter aggiungere, difficilmente smentibile: “premessa essenziale di qualsiasi evoluzione positiva è la condanna e il rigetto aperti della governance che configura la Ue come uno stato di polizia economica”. Non c’è alternativa politica che non passi per il “recupero del rapporto tra democrazia e sovranità”, oggi
completamente saltato non perché sarebbe venuta meno la sovranità, ma
perché questa non risiede più nella rappresentanza politica ma nelle
tecnostrutture finanziarie a-nazionali della Ue.
Che l’obiettivo dell’Unione europea sia d’altronde quello di uno
svuotamento in senso liberista della sovranità statuale è detto
espressamente da Guido Carli, all’epoca della stipula del Trattato di
Maastricht Ministro del Tesoro, in un suo libro di memorie edito nel
1993:
“l’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”,
l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione
economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa,
una redistribuzione responsabile che restringe il potere delle assemblee
parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva per
gli enti locali, il ripudio del principio di gratuità diffusa (con la
conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale),
l’abolizione della scala mobile, la mobilità dei fattori produttivi, la
riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e
dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non
soltanto da parte dei lavoratori, ma anche dei produttori di servizi,
l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e
tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore
di quest’ultimi”.
Potrebbe sembrare un volantino di agitazione per una qualche
manifestazione politica o sindacale, e invece è l’elogio di un alto
dirigente che capì prima di altri la funzione della Ue come grimaldello
per lo scardinamento dello Stato come attore economico nella vita dei
cittadini.
Ora, se la perdita di questo ruolo certifica (non fosse altro che per
pragmatica valutazione di questo trentennio) un regresso generalizzato
delle condizioni di vita; se il recupero di questa funzione si
caratterizza inevitabilmente come elemento progressivo per le
popolazioni del continente, almeno quelle sottoposte ai diktat
europeisti; se, insomma, il discorso non è far tornare indietro le
lancette della storia, ma rivendicare un ruolo progressivo del pubblico
contro il privato, allora ci domandiamo: perché le posizioni politiche
di chi rivendica la lotta volta a ristabilire il primato del pubblico e
della politica sul privato, i mercati e l’economia, è vista come
“regressiva” a sua volta, “sovranista” o “nazionalista”, quando in
realtà di “sovranismo” è impregnata quella stessa politica europeista
vista come “male minore” rispetto al (presuntissimo) “ritorno” agli
Stati nazionali?
Sbaglieremmo però a vedere dietro la costruzione europeista una volontà politica. Questa, sebbene sia presente, è ancillare rispetto alla necessità economica che
impone agli Stati membri, e soprattutto alla Germania, di perseguire
l’obiettivo europeista. I tre saggi finali del testo svelano il nesso
inscindibile tra Unione europea e capitalismo tedesco:
“l’atteggiamento punitivo che la Germania assume nel quadro di
Maastricht verso la grande maggioranza dei paesi Ue non è solo un dato
di volontà politica. Ha le sue radici in un modello di sviluppo
strutturato sulla progressiva sostituzione della domanda interna con
l’aumento della domanda estera, che provoca, in termini di distribuzione
del reddito, un contenimento crescente del ruolo trainante del salario.
In ragione di questa configurazione, la più forte economica europea,
nel lungi dallo svolgere il ruolo di locomotiva tante volte auspicato,
opera come fattore di freno per l’intera eurozona. Siamo in altri
termini dinanzi a un vero e proprio capovolgimento del modello egemonico
Usa che all’indomani del 1945 ha fatto dell’espansione del proprio
mercato interno il fattore propulsivo per l’intero sistema”.
L’Unione europea conviene alla Germania, perché senza l’Euro la
Germania avrebbe una moneta notevolmente apprezzata che le impedirebbe
di fatto di reggere il confronto competitivo con le monete nazionali di
altri Stati a vocazione manifatturiera, come ad esempio l’Italia. Il
vantaggio competitivo tedesco è allora viziato da una propensione
mercantilista (volta cioè a favorire le esportazioni al posto della
domanda interna), possibile però solamente grazie alla Ue e alla moneta
unica, che determina una parità forzata di condizioni finanziarie tra i
membri aderenti, in presenza però di economie differenti e diversi stadi
di produttività. E’ la Germania il vero malato d’Europa, un malato che
vampirizza le economie meno produttive desertificandole industrialmente e
carpendo i vantaggi della ritirata industriale dei suoi competitors.
Un potere contrattuale basato, peraltro, sulle riforme del proprio
mercato del lavoro (le riforme Hartz targate centrosinistra) che, lungi
dalle vulgate mediatiche, fondano la produttività tedesca sul working poor, la
precarietà lavorativa, sulla moderazione salariale e sugli incentivi
statali. Dinamiche queste che stanno producendo il paradosso per cui è
la produzione dei paesi satelliti della Germania (il gruppo Visegrad)
che delocalizza nella stessa Germania, che gode ormai di
vantaggi competitivi talmente elevati da risultare efficiente e
conveniente anche rispetto ai mercati del lavoro dell’Europa orientale.
Anche questo libro rimane sospeso nel tratteggiare soluzioni
politiche possibili. Non c’è alcuna conclusione inevitabile al
ragionamento proposto. L’uscita unilaterale dalla Ue, sebbene vista da
alcuni autori come passaggio necessario al recupero di una dimensione
politica in cui quantomeno giocarsi la partita, manca di
definizione credibile per poter essere valutata. L’uscita “dal basso e
da sinistra”, che altri autori indicano, è una suggestione più che una
proposta di lavoro, visto lo stato comatoso delle sinistre nel
continente. E che, soprattutto, non tiene in conto che questa uscita (o
questa rottura generale), ad oggi è più probabile che avvenga da destra e dall’alto più che da sinistra e dal basso. Su una cosa invece il discorso appare convincente: “il
monopolio che il populismo detiene della critica della situazione
esistente fa si che il sistema consegua nuova legittimazione. Se non si
spezza la tenaglia che si è creata, con l’austerità da un lato e il
populismo dall’altra, qualsiasi nuova opportunità creata dalla crisi
andrà perduta”. Questa è una logica inaggirabile e decisiva: per
sottrarre ai populismi regressivi il monopolio dell’opposizione, bisogna
raccogliere la sfida ricalibrando in senso progressivo (e magari
rivoluzionario) la parole d’ordine della resistenza al sovranazionalismo
europeista.
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