Siamo al rush finale della campagna sociale per il No. Forte è la percezione che la giornata del 4 dicembre, nel bene o nel male, segni la fine di una stagione politica, aprendone un’altra. In ogni caso le cose nel nostro paese non saranno più le stesse: in gioco non c’è soltanto la modifica costituzionale, la riscrittura pasticciata della seconda parte della Costituzione, ma l’affermazione definitiva della dimensione oligarchica nel campo politico e giuridico. Non andiamo incontro alla fine del mondo, ma è una data che porta con sé delle conseguenze profonde per il futuro prossimo, non solo in Italia ma anche per il resto della Ue. Un fatto politico che segue l’inaspettata Brexit di giugno e precede due appuntamenti altrettanto strategici come le elezioni francesi della prossima primavera e le elezioni tedesche dell’autunno 2017 (senza contare le elezioni austriache di questa stessa domenica). Insomma, quello che è in ballo il 4 travalica i confini e potrebbe incrinare l’assetto europeista.
L’eventuale vittoria del No non apre una fase in discesa per i movimenti di classe, per quello che rimane dei comunisti e per la sinistra in generale, ma una cosa si può dire, senza tema di essere smentiti: la vittoria del No segnerebbe una dura sconfitta, una battuta di arresto della restaurazione liberista nel nostro paese dalla fine degli anni’ 70.
Se torniamo indietro con la memoria, fermandoci all’inizio del ciclo della restaurazione, della sconfitta e riflusso, non ricordiamo una vittoria nel campo popolare degna di nota, se escludiamo il referendum sul nucleare del 1987, o il referendum sull’acqua nel 2011, vittorie molto parziali e che certo non hanno interessato e influito sulla dimensione generale degli equilibri politici nazionali o sovranazionali. Sarebbe il primo alt alla governance ordoliberista, quindi non solo un no al governo Renzi e alle sue politiche di devastazione sociale. La Costituzione non sarà però “salvata” dal voto popolare, semplicemente perché al di là del contenuto formale progressista della sua prima parte, il governo liberista trasversale ha ampiamente bypassato i principi e i contenuti socialdemocratici della Carta costituzionale da almeno un trentennio. Come abbiamo detto anche in altre occasioni, siamo di fronte a una svolta storica del governo della borghesia, in cui almeno nell’occidente imperialista, è cambiato il paradigma della rappresentanza e del rapporto tra dominanti e dominati e questo non si cancella dal giorno alla notte. Indubbiamente la stella politica renziana, che sulla retorica del nuovo e della rottamazione ha fatto la sua fortuna politica, sarebbe con molta probabilità destinata al tramonto, con tutte le fibrillazioni di una fase in cui si va al rimescolamento delle carte.
Il punto che più ci riguarda, referendum o meno, sta nella necessità che abbiamo di uscire dalla dimensione dell’irrilevanza politica, riaprendo il nodo politico della organizzazione dell’opposizione sociale e della rappresentanza politica delle classi subalterne. Un’eventuale vittoria dei No non dipenderà da noi, ma per noi dal giorno dopo diventa improrogabile agitare quel No nel suo senso sociale, conflittuale, anti-liberista. Come abbiamo fatto in questi mesi di campagna elettorale, e come saremo costretti a fare dal 5 dicembre in poi, se non vogliamo morire di testimonianza anti-capitalista.
Non si sfugge da questi temi, non sarà nessun singolo evento a cambiare la rotta delle cose, il protagonismo politico si guadagna ritornando ad affermare un programma sociale di cambiamento, radicale, che indichi una prospettiva, concreta, percepibile, praticabile. Ecco perché se ci sarà una vittoria dovremo tornare al nodo della rappresentanza politica, rafforzando il lavoro svolto in campo sociale e sindacale concretizzatosi nelle giornate di sciopero sociale del 21 e 22 ottobre scorso.
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