Per affrontare quella sospensione della rappresentanza vissuta dalla comunità palestinese dal 2006, periodo delle ultime legislative, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen propone al suo partito (Fatah) di trovare un accordo con Hamas per creare un governo d’unità nazionale che prepari nuove consultazioni politiche e quelle riguardanti la carica che ricopre dal gennaio 2005, le presidenziali. Mazen, un’intesa di massima l’ha già impostata, incontrando il mese scorso a Doha il leader dell’organizzazione islamista, Khaled Meshal. Bisognerà vedere se farà digerire a tutti i membri di Fatah quest’avvicinamento. I due partiti, che già in altre circostanze (2011 e 2014) hanno cercato una sorta di riconciliazione, ipotizzando di rinnovare elettoralmente la rappresentanza, non hanno ricucito la frattura del 2007, quando si disputarono con le armi il controllo della Striscia di Gaza. Fatah fu allontanata dopo duri, e sanguinosi, scontri che l’avevano vista refrattaria a rispettare il responso delle urne favorevole ad Hamas. Durante i reiterati attacchi israeliani alla popolazione di Gaza, con le operazioni Piombo fuso, nel gennaio 2009 (circa 1.500 morti, oltre un terzo bambini), Pilastro di Difesa, nel novembre 2012 (un centinaio di vittime), Margine di Protezione, nel luglio 2014 (2300 i morti) i lutti fecero meditare i capi politici, ma non al punto di unificare l’amministrazione dei territori.
Le elezioni coinvolgerebbero sette milioni e mezzo di cittadini senza uno Stato veramente autogestito. E’ nota la presenza delle truppe di Tsahal fra i due milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania, mentre il milione e mezzo della Striscia subisce periodicamente le “punizioni” di Israele, anche in virtù del marchio terroristico tuttora presente sul movimento Hamas, un contrassegno che i governi israeliani hanno richiesto e ottenuto da una parte consistente della Comunità internazionale. Per non parlare del milione di palestinesi presenti in Israele su cui pesa la pratica ultraortodossa, e pure sionista, di considerarli cittadini di serie B. Quindi ci sono i tre milioni della diaspora, meno garantiti quelli dei campi profughi di Giordania e Libano, in migliori condizioni, per lo meno sul fronte dell’incolumità, la componente che vive nei Paesi europei e negli Stati Uniti. Tutti, però, da oltre un decennio non hanno più avuto occasione di esprimere una rappresentanza su cui la vecchia guardia di entrambe le fazioni fa pesare il suo interessato controllo. Il passo compiuto dall’ottantunenne Abu Mazen è anche motivato dall’incertezza che grava sulla politica interna e dall’assenza d’una leadership carismatica e condivisa. Nel decennio di contrasti e conflitto strisciante e palese con Israele molti giovani hanno guardato alle posizioni radicali mostrate dalla Jihad palestinese, che proprio nelle disperanti condizioni di Gaza ha registrato un seguito.
La presenza, da oltre tre anni nei territori del Sinai, di movimenti jiahadisti, mette in allarme gli stessi capi di Hamas che non riescono a controllare tutti i contatti fra gazawi ed esterni, egiziani e non solo. Certo, sul confine di Rafah l’esercito di Sisi ha compiuto nell’ultimo biennio un repulisti non solo di tunnel del contrabbando, ma degli insediamenti in superficie, agevolando come ai tempi di Mubarak l’esercito di Tel Aviv nell’isolamento degli abitanti della Striscia. Questo ha fatto ulteriormente crescere la rabbia. Con essa anche la cieca via delle azioni disperate più che di resistenza, organizzate dai lupi solitari della cosiddetta ‘Intifada dei coltelli’. La carenza di prospettiva economica e politica per una popolazione sotto occupazione è correlata al mantenimento del potere da parte dei tenutari del fronte partitico palestinese, una conservazione che ha prodotto, oltre ai personalismi comuni alla ‘casta amministrativa’ presente in ogni latitudine, un inaridimento delle radici da cui far sbocciare una classe dirigente rinnovata. Soggetti che perpetuano se stessi (Abu Mazen o un redivivo Dahlan, di cui nel ritiro dorato di Abu Dhabi si ventilano pruriti per un ritorno a ruoli di rappresentanza, e anche figure del Gotha islamista) bloccano il ricambio politico e limitano la crescita di nuove leve. Così i giovani guardano altrove, mentre alla galassia della Jihad palestinese guardano i reclutatori dell’Isis, attivi in altre aree mediorientali, ora che l’assedio a Mosul e la possibile perdita di Raqqa li potrebbero sloggiare dai territori dell’agognato Califfato.
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