Scrivere di Prodi è prima di tutto un problema di disagio morale. E’ ormai quasi scomparsa la memoria del disastro della Kater-I-Rades, che provocò circa 100 morti, frutto della sciagurata politica italiana di contenimento dei barconi albanesi. Politica operata dal governo Prodi, nel tentativo maldestro di fermare una marea umana, allora in fuga dall’Albania, dopo la crisi delle finanziarie del paese delle aquile. In primavera saranno passati vent’anni esatti dalla strage, già ampiamente rimossa nel decennale (che vedeva Prodi, ironia della sorte, di nuovo presidente del consiglio).
Eppure, quando riemerge il nome di Prodi, il disagio di questo ricordo appare di nuovo. Il problema è che il popolare “mortadella”, soprannome nato durante le strategie di accreditamento di Prodi come personaggio per famiglie nel periodo del primo confronto con Berlusconi, è stato persino etichettato come qualcosa di compatibile a sinistra. Non solo, grazie al disastro politico a sinistra contemporaneo all’ascesa di Berlusconi, Prodi della sinistra istituzionale, e di quella “radicale”, è stato il leader riconosciuto. Leader di una coalizione, quella contro Berlusconi, che pur operando in un sottinteso antifascista, quello che voleva le destre berlusconiane come anticamera di un più robusto rischio autoritario, dell’antifascismo non aveva nessuno dei vantaggi. Ad esempio, ne citiamo uno, era assente quella tutela dei beni pubblici, e dei servizi sociali, nonché delle politiche a tutela della libertà di espressione e del salario, tipiche di ogni accordo antifascista. Fu invece presente un processo di privatizzazioni, a partire dal 1996, che poco, per non dire nulla, aveva a che vedere con la costituzione antifascista (che prevede il primato del pubblico nell’intervento economico). Ma il pittoresco politicismo dei Bertinotti, e le necessità di posizionamento di tanto ceto politico, riuscirono nel miracolo di rendere appetibile a sinistra il governo Prodi. La stessa persona che, commissario di una Ue allineata con il FMI, fu di nuovo scelta da tanta sinistra noglobal, quella che a Genova contestava quelle stesse istituzioni, come leader della coalizione del 2006.
E fu così che Prodi, protagonista in prima persona dello smantellamento dei beni pubblici nell’industria, nell’innovazione e nella ricerca, già come presidente dell’Iri, divenne il frontman di molta sinistra per tutto un decennio. Come è andato a finire questo (interessato) equivoco lo sappiamo: fine della sinistra istituzionale post ’89 e pensionamento politico di Prodi. Con una coda velenosa, la mancata elezione di Prodi a Presidente della Repubblica dopo anni di binario politicamente morto, che ha aggiunto quella corona di spine necessaria nella descrizione del martirio politico di una sconfitta. Già perché Prodi, ottimo nelle relazioni politiche tanto da farsi nominare due volte leader di una coalizione e commissario Ue, politicamente parlando le ha perse tutte. Tanto da farsi disarcionare, una volta al comando, dalla sua stessa coalizione. Per non parlare dello sputtanamento finale con la candidatura a presidente della Repubblica. Capita a un ceto politico convinto di saper giocare sulla scacchiera giusta per imporre comando e privatizzazioni. Dal punto di vista di una politica istituzionale cinica e opportunista: passi per le privatizzazioni, alla fine anche la sinistra si adegua, ma non per il comando. Quello richiede altre doti. Prodi, pur riconosciuto da tutti come una tigre nelle stanze del potere, ha sempre mancato degli strumenti essenziali per essere un capobastone anche in politica, oltre che nel mondo accademico: una macchina di voti propria, e organizzata, un dispositivo dei media popolare. E, ça va sans dire, una strategia politica che non sia semplicemente provare a mettere d’accordo una rete fatta di finanza amica, banche e rami alti dell’amministrazione dello stato.
Oggi Prodi riemerge con una, sotto sotto, rancorosa dichiarazione di voto. Come mai? Evidentemente tutto questo somiglia molto all’ultima occasione per rientrare nei giochi politici. O comunque nei giochi che contano. Insomma, un ex presidente del consiglio, commissario Ue, ambasciatore delle politiche di impresa del mondo, già advisor di Goldman Sachs che cerca collocazione. Già, perché il rapporto con Goldman Sachs, da parte di Prodi, non è episodico. Non solo per il ruolo di advisor ricoperto da Prodi. Affonda negli anni ’80 e ’90, in affari che Prodi ha fatto fare a Goldman, che ad esempio fece da player finanziario alla privatizzazione della Bertolli. Affonda, ovviamente, nella consulenza di Prodi a Goldman tra il ’90 e il ’93. Non molto prima di essere abbracciato da Bertinotti insomma (e viene davvero da ridere a pensare a tutta la vicenda). Inutile andare a cercare gli uomini Goldman dentro i governi Prodi, piuttosto c’è da chiedersi una cosa, seguendo questa pista. Goldman Sachs si è già piazzata nel NO, con Mario Monti, e dispone la propria rete di relazioni nello schieramento del SI, via Romano Prodi?
Del resto già durante l’estate circolava un rapporto sull’Italia di Goldman Sachs che si schierava a favore del Si e di Renzi. Non certo per le conseguenze sostanzialmente nulle nel caso dei titoli di Stato grazie al quantitative easing della Bce. Ma proprio per gli effetti molto pesanti su MontePaschi e sul sistema bancario. Si badi bene, effetti per Goldman, che si vede incapace stare, finanziariamente parlando, nelle conseguenze di un crollo di MPS e delle banche italiane senza Renzi. Comunque vada quindi Prodi, tornato in campo, potrebbe garantire, il condizionale è d’obbligo in una situazione del genere, quella capacità di mediazione, in caso di crisi, sulla vicenda bancaria. Una capacità di mediazione che faccia comodo a Goldman Sachs e a Renzi. E c’è un dettaglio da non trascurare. Le previsioni di aumento dell’inflazione e dei bond Usa, se confermate, finiranno per alzare i tassi anche in Europa. Allargando il debito pubblico italiano. E quindi, di conseguenza, estendendo il mercato delle obbligazioni. Ecco un altro buon motivo perché Goldman Sachs resti dove vuol restare: accanto al presidente del consiglio. Dove il debito pubblico si allarga, pardon il mercato obbligazionario, c’è Goldman Sachs.
Senza entrare nel complottismo, che è veleno cognitivo, non ci vuole molto a capire che una banca d’affari deve provare a differenziare l’investimento: se Prodi non andrà bene in un campo, magari si proverà con Monti in un altro. Ora è il momento della roulette del voto. Uno dei più sinistri di sempre. Con una campagna elettorale a reti unificate, ossessiva da parte di un uomo solo. Resta da capire se il conglomerato media, confindustria, sindacati (intervenuti con preaccordi sui contratti opportuni in termini di propaganda renziana) visibilmente in accordo col presidente del consiglio saprà reggere alle conseguenze del dopo 4 novembre. Ma domani, si sa, è un altro giorno per tutti.
Redazione, 2 dicembre 2016
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