A pochi giorni dal voto è opportuno
riflettere attentamente su un “effetto indiretto” costituzionale (nel
senso dei colpi di biliardo che imprimono una particolare rotazione alla
palla per indurla a colpire in modo imprevedibile) passato inosservato e
che non è entrato nella discussione pubblica.
L’art. 117 della Costituzione vigente,
nell’ambito della definizione delle legislazione concorrente
Stato-Regioni, menziona la ricerca scientifica e tecnologica,
accoppiandola – lì, si direbbe, giustamente – all’idea del “sostegno
all’innovazione per i settori produttivi”.
Il legislatore costituzionale del 2001
sapeva di rivolgersi ai territori e accettava l’idea di offrire una
legittimazione costituzionale agli enti e centri di ricerca che molte
regioni avevano nel tempo istituito. Il legislatore del 2001 parlava di
ricerca scientifica e tecnologica (rigorosamente) non universitaria e la
metteva al servizio (perché il concetto a seguire è collocato nello
stesso periodo della norma) dell’innovazione dei sistemi produttivi
regionali, con una caratterizzazione territoriale sottintesa proprio dal
fatto che in quel punto la Costituzione tratta di legislazione
concorrente Stato-Regioni.
Ma un conto è la ricerca scientifica extra-universitaria al servizio dei territori delle regioni. Un conto è l’Università.
Nella nuova competenza statale esclusiva
dello Stato immaginata e propostaci dal governo, si coglie l’occasione
per inserire una parola che non ha mai albergato nell’art. 117: “universitaria”.
Nella proposta di revisione costituzionale sottoposta a referendum si parla infatti di “istruzione scientifica universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica”,
introducendo così nuovo materiale testuale e nuovi dispositivi di senso
(cioè: parole) nella nostra Costituzione, menzionando esplicitamente un
termine che doveva rimanere gelosamente custodito nel recinto dell’art.
33 della nostra Carta fondamentale.
E guarda caso la parola che non c’era (“universitaria”) viene messa accanto a un altro gruppo di parole in parte nuove: “programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica”.
Non dimentichiamo che il nuovo
Parlamento potrà sfoggiare non solo i suoi muscoli elettorali, ma anche
quelli istituzionali: il nuovo Senato dei non eletti parteciperà alla
designazione dei componenti della Consulta con la nomina di due giudici di
sensibilità governativa. La futura Corte Costituzionale potrà fare
tesoro del richiamo esplicito alla “istruzione universitaria” e alla
“programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica”,
quest’ultima non più riferita alla precedente competenza concorrente con
le regioni ordinarie. E potrà servire a costruire argomentazioni tese a
giustificare l’idea che il governo abbia titolo a dettare
l’agenda strategica della ricerca scientifica e tecnologica condotta
dall’università anche investendo sulla didattica. Per un approfondimento del punto si rimanda qui.
In sintesi: nella proposta di riforma
costituzionale c’è una parola “universitaria” che prima non c’era, sta
nella competenza esclusiva, ed è quella che potrebbe permettere di
incidere testualmente sull’interpretazione costituzionale, retroagendo
anche sull’art. 33.
Lo Stato, se vuole “governare
l’innovazione”, può creare (e di fatto crea) tutte le cabine di regia
che vuole, ma non deve farlo dettando istituzionalmente l’agenda della
ricerca universitaria. Certamente non con il finanziamento ordinario.
Quali sono gli scenari resi possibili
dalla nuova formulazione costituzionale? In genere gli scenari possibili
disegnati dai giuristi a seguito di modifiche costituzionali sono
caratterizzati da un elevatissimo grado di incertezza. In questo caso
però ci sembra che alcune leggi ordinarie già approvate e bozze di
decreti del governo ci permettano di capire bene quale sia la portata
della riforma costituzionale su università e ricerca.
Il nuovo articolo 117 della costituzione
sembra disegnato appositamente per dare legittimazione postuma alle
visioni governative in via di attuazione.
L’elenco è presto fatto:
- le 500 cattedre Natta, definite nella legge di stabilità 2016, per le quali la bozza di DPCM prevede che sia direttamente la Presidenza del consiglio a nominare delle commissioni che sceglieranno i professori che se le aggiudicheranno [si veda qui];
- il torneo tra i dipartimenti, il Renzi University Trophy (artt. 43-45, legge di stabilità 2017) che permetterà al governo di finanziare direttamente i dipartimenti vincenti, scavalcando gli organi istituzionali degli atenei; [si veda qui]
- il finanziamento ordinario diretto dal governo a ricercatori e professori associati, scavalcando gli atenei (art. 41, legge di stabilità 2017); [si veda qui]
- la misura sui cosiddetti “dottorati innovativi”, che s’innesta sulla fortissima contrazione che i dottorati italiani hanno conosciuto negli ultimi anni [si veda qui].
In particolare il torneo tra dipartimenti, come abbiamo dettagliatamente documentato in questo post,
si configura come un modo per trasferire risorse ordinarie di
funzionamento dagli atenei del Sud – cui andranno 154 milioni di euro – a
quelli del Centro-Nord che riceveranno 1,06 miliardi, dietro la cortina
fumogena del premio al merito.
Con il torneo tra dipartimenti c’è però
in gioco anche l’autonomia degli Atenei cui viene tolta la facoltà di
ridistribuire al loro interno risorse fra le aree del sapere,
verticalizzando il rapporto fra esecutivo e dipartimenti premiati. Di
fatto le scelte discrezionali di fondo del Governo attuale
condizioneranno per cinque anni, cioè ben oltre il mandato elettorale,
l’allocazione strutturale delle risorse che la collettività investe per
dare effettività all’art. 33 della Costituzione.
Le misure di cui stiamo parlando sono
state finalizzate in tempi sapientemente coerenti con la riforma
costituzionale. La “cabina di regia” ha lavorato in perfetto
sincronismo.
Se passa il Sì, l’innovazione testuale
non tarderà a produrre i suoi effetti. Banalmente, riceveremo mail che
annunceranno nuovi adempimenti da espletare, senza più alcuna difesa,
quali obbedienti e rassegnati esecutori di una ricerca di base
strutturalmente condizionata dalle scelte dell’esecutivo.
Il voto che tutti noi deporremo
nell’urna il 4 dicembre, è anche il voto su questa implementazione e
sugli scenari applicativi che prospetta al senso più nobile e profondo
del nostro impegno quotidiano nell’Università, che è quello che dovrebbe
indurre a difendere il valore della libertà accademica e della
autonomia dell’Università [si rimanda qui].
I colleghi che in corridoio s’indignano,
e con occhi rabbiosamente spenti e frasi di circostanza si lamentano
per quello che piove loro in testa, già adesso, se guardano con favore a
questa riforma costituzionale, hanno ancora pochi giorni per riflettere
e fare pace con loro stessi.
Oppure dal 5 dicembre sapranno come dimostrare il loro intimo stato di belligeranza. Tacendo.
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