di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Sarebbe da 7 mesi
prigioniero in Siria: Sergio Zanotti, 56enne della provincia di Brescia,
è apparso la settimana scorsa in un video pubblicato dall’agenzia russa
Newsfront. Dietro di lui un uomo armato. Zanotti pronuncia il
suo appello alle autorità italiane: chiede di intervenire per non essere
giustiziato. Una storia anomala: la Farnesina dice di essere a
conoscenza del video da alcuni giorni, ma non si sa perché nessuno ne
abbia denunciato prima la scomparsa né perché i rapitori abbiano
aspettato tanto a palesarsi.
Nella Siria martoriata dalla guerra gli occhi sono puntati su Aleppo: è
incessante la fuga di civili che da lunedì accompagna l’offensiva del
governo di Damasco contro le opposizioni arroccate nella parte
orientale della città. Una folla di persone, in mano qualche valigia, si avvicina ai
confini fittizi con cui la guerra ha diviso Aleppo est da Aleppo ovest.
Scavalcano le rovine e camminano verso i quartieri occidentali in mano
al governo. Ci sono bambini, anziani, malati, persone malnutrite e
infreddolite, gli occhi stanchi.
Dopo anni sotto assedio, stretta tra bombe del governo e missili
delle opposizioni, privata di cibo e ospedali, costretta tra le macerie a
fare letteralmente da scudo umano, la gente di Aleppo est se ne sta
andando. La sua sofferenza è stata sfruttata a lungo, da
entrambe le parti, colpevoli di abusi indicibili. Per mesi le
opposizioni hanno millantato l’intenzione dei civili di restare,
etichettandoli tutti come anti-governativi. Ora sono le stesse
organizzazioni del fronte anti-Assad a dire che così non è, o
comunque non sempre: le milizie armate che impedivano loro di fuggire e
continuavano a rifiutare accordi con il governo seppure fosse ormai
chiaro che non avrebbero vinto.
Sarebbero 16mila i civili in marcia verso le zone governative e
quelle kurde: «Molti di loro sono in situazione precaria, con nessuna
scelta se non scappare», dice Stephen O’Brien, capo umanitario dell’Onu,
che denuncia anche gli attacchi delle opposizioni che nelle ultime
settimane hanno provocato lo sfollamento di 20mila persone nei quartieri
ovest.
Per molti è l’inizio della fine della Aleppo dei “ribelli”. Le
truppe del presidente Assad avanzano da sabato, mangiando terreno ai
gruppi armati, circa 10mila miliziani ognuno con una bandiera diversa ma
tutti sotto la potente ala di Jabhat Fatah al-Sham, i qaedisti dell’ex
al-Nusra. In quattro giorni il governo ha ripreso l’intera zona nord per
poi spostarsi a sud est: metà dei quartieri in mano alle
opposizioni è passato a Damasco, che prova a stringere il cerchio per
impedirne la fuga e un’eventuale riorganizzazione. Secondo attivisti
locali, le bombe hanno ucciso anche 25 civili.
A combattere le opposizioni non sono solo i governativi. Ci sono
anche i kurdi delle Ypg, ufficialmente indipendenti da Damasco, ma nella
pratica impegnati contro lo stesso nemico che ha marginalizzato e
attaccato le zone kurde della città negli ultimi anni. La resa
dei conti coinvolge tutti, forze in campo e manovratori esterni. I paesi
finanziatori del fronte anti-Assad lo hanno ingrassato ancora con armi e
denaro, Golfo in primis, dopo il via libera di Washington a proseguire
con la vecchia strategia. Eppure gli stessi “ribelli” lamentano
di avere con sé solo «armi primitive», dimenticando quelle mandate da
Golfo e Usa via Turchia e Giordania: «Negli ultimi anni abbiamo
resistito con mezzi primitivi – diceva ieri Yasser Youssef, del gruppo
islamista Nureddin al-Zinki – Ma ora ci troviamo di fronte la Russia e
l’Iran».
Come sempre in prima fila c’è la Turchia che a fine agosto ha
oltrepassato il confine: l’invasione del nord della Siria, da tempo sul
tavolo del presidente Erdogan, è diventata realtà. In chiave anti-Isis
ufficialmente, ma con il reale obiettivo di spezzare l’unità kurda. Per
questo Ankara non è stata troppo disturbata dalla Russia, nonostante sul
campo avesse uomini e servizi segreti. Ad avanzare sono stati 2mila
“ribelli” siriani: nelle mire di Erdogan dovevano essere lo strumento
per rafforzare la propria influenza sulle opposizioni ad Aleppo, mentre
coperti dalle truppe turche si portavano a 40 km dalla capitale del
nord.
Una strategia che a Mosca e Damasco non è piaciuta, chiara
violazione dell’ufficioso patto stretto ad agosto. E dopo la morte di
tre soldati turchi ad al-Bab – secondo Ankara per mano russa,
avvertimento a frenare l’avanzata – ieri Erdogan ha ammesso quanto si
sapeva: l’operazione via terra – ha detto – ha lo scopo di far cadere
Assad.
Ma ora gli equilibri sono destinati a cambiare: con gli Stati Uniti
che non proferiscono più parola sulle sorti di Aleppo, si frammenta il
fronte anti-Damasco aprendo la strada alla vittoria della Russia e ai
suoi piani per il Medio Oriente mentre alla Casa Bianca si insedia un
nuovo presidente, il “putiniano” Trump.
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