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02/03/2017

Lavoro di cittadinanza, non scherziamo

A fine dicembre, poco dopo la vittoria di Trump il New York Times, testata che non può essere certo definita tecnofoba, pubblicò un articolo dal titolo eloquente: “più della Cina è la tecnologia a distruggere i posti di lavoro”. Segno sicuramente della direzione editoriale delle polemiche antiTrump della testata, che vuol preservare la connection Usa-Cinese messa in discussione da The Donald, ma anche della inevitabilità della discussione sulla distruzione tecnologica dei posti di lavoro.

Bisogna anche ricordare che esistono posizioni differenti, che sostengono tesi contrarie, legate all’idea che, in fondo, ancora oggi tramite le tecnologie si producano più posti di lavoro di quelli che si perdono. Quello che, poi, è sempre accaduto dalla rivoluzione industriale, anche se in modo non lineare: aumento della produttività grazie alle tecnologie, distruzione di posti di lavoro storicamente consolidati, saldo finale positivo, in termini di posti di lavoro prodotti, alla fine del ciclo di ristrutturazione. E magari, almeno per quanto riguarda il ‘900, con l’aggiunta di diversi tipi di conflitto distesi lungo tutto il ciclo di ristrutturazione.

C’è un altro aspetto da considerare nel rapporto attuale tra innovazione tecnologica e lavoro: la mutazione delle professioni. La CNN un paio di anni fa aveva pubblicato delle statistiche non banali sulla questione. A partire dal 1992, su statistiche di Inghilterra e Galles, il combinato tra finanziarizzazione della società e immissione tecnologica aveva causato un crollo numerico in alcune professioni di massa come i metallurgici (-70%) o i tessili (-79%) creando nuove professioni di massa nel settore home e welfare care (+183%) e facendo crescere esponenzialmente le professioni a contatto con l’élite decisionale (business analyst +365%) e il numero degli effettivi al livello di comando del capitale, i manager finanziari (+132%). Certo il modello inglese è unico, per quello che riguarda il lavoro nei servizi finanziari, ma questi dati ci spiegano come, nell’arco di una generazione, cambi di molto il panorama del lavoro.

Questo per dire cosa?

1) Per la prima volta, proprio negli anni ’10 del nostro secolo, si è rotto l’ottimismo tecnologico. Quello che voleva l’immissione di tecnologie del lavoro come un elemento in grado sia di “migliorare” il lavoro che di aumentarlo. Non che nei decenni passati non siamo mancati testi sulla fine della società del lavoro, o richieste come le 35 ore, ma per la prima volta l’ottimismo è stato rotto dalle grandi aziende tecnologiche che si interrogano sugli stessi effetti del loro operato;

2) si prova a rispondere, alla rottura dell’ottimismo tecnologico, con la riproposizione dello stesso schema del ‘900. Ovvero l’idea che all’immissione delle tecnologie, dopo un periodo di contrazione dei posti di lavoro, segua comunque un medio-lungo periodo dove i posti di lavoro aumentano;

3) la composizione del lavoro sociale cambia comunque nella transizione come nella contrazione del lavoro. Nessuna società è uguale, o simile, rispetto al momento in cui parte una ristrutturazione tecnologica. Dal punto di vista politico è un problema perché ci si trova sempre in una compresenza di proposta politica retrodatata e di teorie politiche confuse che cercano di afferrare un nuovo che evocano senza capirlo.

Ci sono anche versioni meno radicali, in un senso o in un altro, di queste prognosi sul futuro del lavoro. Sempre il New York Times, che cerca di offrire un dibattito a più voci (del resto l’ascesa di Trump non offre alternative al capire l’innovazione), nel gennaio di quest’anno ha pubblicato un articolo che fa il punto su posizioni più sfumate sul tema.

Nel link si possono trovare gli indirizzi per arrivare all’ultimo rapporto McKinsey e allo storico articolo di Osborne e Frey del 2013. Dove si sosteneva che, con l’evoluzione tecnologica in corso, almeno il 47% dei lavori conosciuti in occidente era in pericolo. Nel rapporto McKinsey si sostiene che la velocità di questo genere di sostituzione del lavoratore con la robotica è meno accelerata di quanto comunemente si pensi. E che comunque è più facile intravedere un futuro, di medio periodo, dove le tecnologie accompagnano il lavoro umano piuttosto che sostituirlo. La perdita di posti di lavoro c’è, quindi, ma non accelerata. Si apre quindi una discussione sulle tipologie di lavoro sostituibili dalle tecnologie o integrabili con esse.

In questo scenario, che non è tanto americano ma globale, è emersa la proposta, che sarà esposta più a fondo la prossima settimana alla convention del Lingotto di Torino, del lavoro di cittadinanza. L’artefice, neanche a dirlo, è Matteo Renzi. Ma di cosa stiamo parlando? Semplice, di un po’ di LSU (Lavori Socialmente Utili) di vecchio conio e di borse, vedremo con quale tipologia di finanziamento, a sostegno delle imprese e di qualche settore pubblico. A parte che per sostenere il progetto si parla di un piano Juncker all’italiana, una forma di forte indebitamento pubblico col privato che andrà analizzata, è evidente una cosa. Si tratta di un lavoro di cittadinanza che non può entrare in concorrenza con il Jobs Act, architrave del mondo del lavoro secondo Renzi. La sua portata in termini di miglioramento delle condizioni sociali del lavoro è quindi inesistente. In uno scenario come quello descritto, dove comunque la società viene investita in forti mutazioni nella composizione sociale e delle tipologie di lavoro è proprio questo tentativo di equilibrio tra Jobs Act e nuovi LSU che è nocivo. Perché fa permanere i lavoratori in condizione di precarietà nel pieno di forti mutazioni tecnologiche. Insultandoli, se rivendicano il reddito di cittadinanza, come coloro che vogliono “la rendita”. A parte il fatto che, guardando le cronache di quello che appare dall’appalto Consip, sembra proprio che a casa Renzi con la rendita, quella vera, ci sia una certa familiarità. Il punto è che il lavoro di cittadinanza, rispettoso del Jobs Act, nessun lavoratore è al riparo con la precarietà generata dalle rivoluzioni tecnologiche in corso. A prescindere se queste siano più lente o impetuose.

Redazione, 1 marzo 2017

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