di Chiara Cruciati
Ieri è stata la giornata
degli annunci e delle forzature. Al centro sempre la Siria, campo di
battaglia globale dove il nuovo e futuro equilibrio dei poteri si gioca
su tanti tavoli. Ad al-Bab, a Ginevra, al Palazzo di Vetro di New York.
Ieri il presidente turco Erdogan ha confermato quanto dice da mesi, dalla fine di agosto quando lanciò l’operazione Scudo dell’Eufrate nel nord della Siria: le
sue truppe marceranno su Manbij, città liberata dal giogo Isis dalle
forze kurde la scorsa estate. Non solo: Ankara parteciperà alla futura
controffensiva su Raqqa, dimenticando che una è già in corso ed
è quella delle Sdf, le Forze Democratiche Siriane di cui fanno parte
gruppi kurdi, arabi, armeni, circassi e turkmeni.
Il tutto nel più ampio contenitore della guerra all’unità kurda di
Rojava che la Turchia intende evitare ad ogni costo. Anche a quello di
andare allo scontro diretto con le truppe governative siriane, a quanto
pare: al centro ancora al-Bab, la città della provincia nord di Aleppo a
poche decine di km dal confine turco.
Come previsto, le contraddizioni della guerra siriana – e della
fragile tregua in atto – erano destinate ad esplodere proprio ad al-Bab e così è stato: domenica
l’Esercito Libero Siriano (Els), gruppo di opposizione sotto l’ombrello
turco, ha attaccato i militari di Damasco in un villaggio a sud di
al-Bab. Ventidue i morti, a cui il governo ha risposto bombardando postazioni delle opposizioni intorno Homs e Damasco.
Il tavolo di Ginevra non è saltato nonostante l’aperto scontro, ma traballa. Soprattutto se si ascoltano le
dichiarazioni dell’Els che ieri ha annunciato di voler attaccare sia
l’esercito governativo che le Sdf. Bloccano la via per Raqqa, è
questo il motivo: Damasco da sud di al-Bab si è spostato ad est dove si
è congiunto con le Forze Democratiche Siriane, nella pratica
accerchiando turchi e opposizioni e impedendo loro di proseguire verso
Manbij e la “capitale” del sedicente califfato.
Un conflitto plastico, solo in apparenza a bassa intensità,
ma che tira dentro la ridefinizione delle alleanze globali con la Russia
al centro. Lo si è visto ieri durante il voto del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu sulla risoluzione (presentata da Gran
Bretagna, Stati Uniti e Francia) per introdurre sanzioni contro Damasco
(nello specifico contro 11 cittadini siriani e 10 entità legali) e
vietare la vendita, la fornitura e il trasferimento di elicotteri e
pezzi di ricambio a causa dell’uso presunto di armi chimiche. Mosca ha messo il veto, e non è una novità. Lo stesso ha fatto la Cina.
E l’Egitto, rompendo con il suo finanziatore, l’Arabia Saudita, si è astenuto.
Una decisione che segue ad altre simili assunte a favore di Damasco nei
mesi scorsi e che ha già portato alla sospensione da parte di Riyadh
dei prestiti e i finanziamenti da girare al Cairo. È possibile che
al-Sisi, lo stesso che un anno fa aveva scatenato manifestazioni di
piazza dopo aver regalato le isole Tiran e Sanafir a re Salman, oggi
conti di più sull’ingresso nell’orbita russa.
Il veto russo era stato anticipato nel pomeriggio dallo stesso
presidente Putin, che aveva definito “inadeguata e totalmente
inappropriata” la risoluzione: “Minerebbe la fiducia nel processo
negoziale. La Russia non sosterrà alcuna nuova sanzione contro la
leadership siriana”.
A Ginevra, però, di passi avanti non ce ne sono. Ieri al-Hariri, uno dei leader della delegazione delle opposizioni, all’agenzia stampa turca Anadolu ha
fatto sapere che la proposta di un governo di unità che gestisca la
transizione mossa dal governo di Damasco è stata rigettata. Il motivo: non avrebbe sponde internazionali.
Non è dato sapere nulla della proposta in questione. Al-Hariri si
limita a dire di aver visionato le idee dell’inviato Onu de Mistura e di
voler fondare la soluzione politica su “elezioni libere e una nuova
costituzione”. Nessun passo avanti al momento.
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