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01/03/2017

Siria - I tre tavoli della guerra

di Chiara Cruciati

Ieri è stata la giornata degli annunci e delle forzature. Al centro sempre la Siria, campo di battaglia globale dove il nuovo e futuro equilibrio dei poteri si gioca su tanti tavoli. Ad al-Bab, a Ginevra, al Palazzo di Vetro di New York.

Ieri il presidente turco Erdogan ha confermato quanto dice da mesi, dalla fine di agosto quando lanciò l’operazione Scudo dell’Eufrate nel nord della Siria: le sue truppe marceranno su Manbij, città liberata dal giogo Isis dalle forze kurde la scorsa estate. Non solo: Ankara parteciperà alla futura controffensiva su Raqqa, dimenticando che una è già in corso ed è quella delle Sdf, le Forze Democratiche Siriane di cui fanno parte gruppi kurdi, arabi, armeni, circassi e turkmeni.

Il tutto nel più ampio contenitore della guerra all’unità kurda di Rojava che la Turchia intende evitare ad ogni costo. Anche a quello di andare allo scontro diretto con le truppe governative siriane, a quanto pare: al centro ancora al-Bab, la città della provincia nord di Aleppo a poche decine di km dal confine turco.

Come previsto, le contraddizioni della guerra siriana – e della fragile tregua in atto – erano destinate ad esplodere proprio ad al-Bab e così è stato: domenica l’Esercito Libero Siriano (Els), gruppo di opposizione sotto l’ombrello turco, ha attaccato i militari di Damasco in un villaggio a sud di al-Bab. Ventidue i morti, a cui il governo ha risposto bombardando postazioni delle opposizioni intorno Homs e Damasco.

Il tavolo di Ginevra non è saltato nonostante l’aperto scontro, ma traballa. Soprattutto se si ascoltano le dichiarazioni dell’Els che ieri ha annunciato di voler attaccare sia l’esercito governativo che le Sdf. Bloccano la via per Raqqa, è questo il motivo: Damasco da sud di al-Bab si è spostato ad est dove si è congiunto con le Forze Democratiche Siriane, nella pratica accerchiando turchi e opposizioni e impedendo loro di proseguire verso Manbij e la “capitale” del sedicente califfato.

Un conflitto plastico, solo in apparenza a bassa intensità, ma che tira dentro la ridefinizione delle alleanze globali con la Russia al centro. Lo si è visto ieri durante il voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla risoluzione (presentata da Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia) per introdurre sanzioni contro Damasco (nello specifico contro 11 cittadini siriani e 10 entità legali) e vietare la vendita, la fornitura e il trasferimento di elicotteri e pezzi di ricambio a causa dell’uso presunto di armi chimiche. Mosca ha messo il veto, e non è una novità. Lo stesso ha fatto la Cina.

E l’Egitto, rompendo con il suo finanziatore, l’Arabia Saudita, si è astenuto. Una decisione che segue ad altre simili assunte a favore di Damasco nei mesi scorsi e che ha già portato alla sospensione da parte di Riyadh dei prestiti e i finanziamenti da girare al Cairo. È possibile che al-Sisi, lo stesso che un anno fa aveva scatenato manifestazioni di piazza dopo aver regalato le isole Tiran e Sanafir a re Salman, oggi conti di più sull’ingresso nell’orbita russa.

Il veto russo era stato anticipato nel pomeriggio dallo stesso presidente Putin, che aveva definito “inadeguata e totalmente inappropriata” la risoluzione: “Minerebbe la fiducia nel processo negoziale. La Russia non sosterrà alcuna nuova sanzione contro la leadership siriana”.

A Ginevra, però, di passi avanti non ce ne sono. Ieri al-Hariri, uno dei leader della delegazione delle opposizioni, all’agenzia stampa turca Anadolu ha fatto sapere che la proposta di un governo di unità che gestisca la transizione mossa dal governo di Damasco è stata rigettata. Il motivo: non avrebbe sponde internazionali.

Non è dato sapere nulla della proposta in questione. Al-Hariri si limita a dire di aver visionato le idee dell’inviato Onu de Mistura e di voler fondare la soluzione politica su “elezioni libere e una nuova costituzione”. Nessun passo avanti al momento.

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