di Michele Paris
L’amministrazione americana di Donald Trump rischia di precipitare in
una pericolosa spirale di crisi dopo il polverone politico scatenato
dall’improvvisa decisione di martedì del presidente di rimuovere
dall’incarico il direttore dell’FBI, James Comey. L’iniziativa della
Casa Bianca è virtualmente senza precedenti e potrebbe innescare una
vera e propria crisi costituzionale, sovrapponendosi alla campagna già
in atto sui presunti legami tra l’amministrazione e il governo russo.
I
contorni del licenziamento di Comey sono sembrati subito poco chiari.
Le ricostruzioni dei giornali americani hanno assicurato che la
decisione era nell’aria alla Casa Bianca da almeno una settimana e
sarebbe stata presa dopo una serie di consultazioni tra pochissimi
esponenti dell’amministrazione Trump.
La ragione che ha convinto
il presidente a sollevare dall’incarico il numero uno della polizia
federale USA con sette anni di anticipo rispetto alla scadenza decennale
del suo mandato è in ogni caso da collegare all’indagine che l’FBI sta
conducendo sui possibili collegamenti tra politici e membri
dell’intelligence di Mosca con Trump e uomini a lui vicini al fine di
favorire quest’ultimo nelle elezioni presidenziali dello scorso
novembre.
Il licenziamento è arrivato infatti dopo settimane di
audizioni al Congresso sul cosiddetto “Russiagate”, tra cui quella dello
stesso Comey, ma anche in seguito a misure legate alle indagini che
prospettano una stretta sulla vicenda che potrebbe mettere in serio
imbarazzo l’amministrazione Repubblicana.
Sempre i giornali USA
hanno rivelato in questi giorni come siano stati preparati dei mandati
di comparizione destinati a individui a conoscenza dei fatti che avevano
portato alla rimozione del primo Consigliere per la Sicurezza Nazionale
di Trump, l’ex generale Michael Flynn. Quest’ultimo aveva perso il
posto pochi giorni dopo la nomina in seguito alla diffusione della
notizia dei suoi contatti con l’ambasciatore russo a Washington, tenuti
in parte nascosti al vice-presidente, Mike Pence.
In seguito,
Flynn è stato sottoposto a indagine per legami finanziari con il governo
russo e proprio nei giorni scorsi è esplosa una nuova polemica dopo che
era emerso come la Casa Bianca avesse atteso 18 giorni per liquidarlo,
nonostante il ministro della Giustizia ad interim, Sally Yates,
avesse rivelato alla nuova amministrazione che l’ex generale aveva
promesso segretamente all’ambasciatore russo l’allentamento delle
sanzioni contro Mosca applicate da Obama.
Mercoledì, è circolata
inoltre la notizia che nei giorni scorsi Comey aveva fatto sapere ad
alcuni membri del Congresso impegnati nelle indagini sul “Russiagate”di
avere chiesto al dipartimento di Giustizia, da cui l’FBI dipende,
maggiori “risorse” per il caso delle interferenze di Mosca nel processo
elettorale americano.
La giustificazione ufficiale per il
benservito a Comey è stata però di altra natura ed è collegata invece
alla gestione da parte dell’FBI dell’indagine su Hillary Clinton,
accusata di avere utilizzato un server privato di posta elettronica
durante la sua permanenza al dipartimento di Stato.
La Casa
Bianca e il dipartimento di Giustizia hanno commissionato al
vice-ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, una lettera di
licenziamento che sembra un concentrato di contraddizioni e
incongruenze. Comey viene accusato di avere commesso gravi errori nel
condurre le operazioni relative al caso Clinton, dapprima scagionando
l’ex candidata Democratica alla Casa Bianca nel mese di luglio e a
ottobre, a soli 11 giorni dal voto, con una clamorosa dichiarazione
pubblica per annunciare la riapertura delle indagini.
Le
conclusioni che Trump avrebbe tratto per arrivare al licenziamento di
Comey, almeno secondo la lettera di Rosenstein, sono però contraddette
dai fatti e da molte dichiarazioni, spesso rilasciate tramite “tweet”,
dello stesso presidente.
Quando, ad esempio, il capo dell’FBI
aveva deciso di non procedere contro Hillary, Trump si era espresso in
termini molto critici, mentre a ottobre aveva elogiato Comey per il
coraggio mostrato nel riaprire l’indagine ai danni della sua rivale alla
vigilia delle presidenziali.
Che
oggi Trump siluri Comey per la conduzione della vicenda Clinton è
dunque assurdo. La conclusione più logica è piuttosto che si tratti di
un’azione per cercare di ostacolare l’indagine sui legami della sua
amministrazione con la Russia, guidata appunto dal direttore dell’FBI.
L’evento
cruciale che può avere convinto Trump a prendere provvedimenti nei
confronti di Comey potrebbe essere stata la testimonianza di
quest’ultimo il 20 marzo scorso alla commissione Servizi Segreti della
Camera dei Rappresentanti del Congresso. In quell’occasione, Comey aveva
per la prima volta confermato ufficialmente l’esistenza di un’indagine
dell’FBI sulla presunta interferenza russa nelle presidenziali del 2016,
possibilmente in collaborazione con uomini dello staff di Trump.
Anche
considerando il dilettantismo e l’irresponsabilità che hanno spesso
caratterizzato l’azione dell’amministrazione Trump in questi primi mesi,
è difficile credere che non fossero state previste le conseguenze
politiche della rimozione del responsabile di un’agenzia federale che
sta indagando sulla Casa Bianca.
Il fatto che Trump abbia deciso
comunque di muoversi in questo senso sembra dimostrare perciò il livello
di disperazione che pervade una nuova amministrazione sotto assedio da
parte di forze all’interno dello Stato preoccupate sia per il discredito
in cui la Casa Bianca sta gettando gli Stati Uniti sia, ancor più, per
un’attitudine strategica ritenuta non sufficientemente anti-russa.
La
decisione di Trump è poi da mettere in relazione forse anche alle
divisioni e ai malumori esistenti all’interno dello stesso “Bureau”.
Comey ne aveva accennato settimana scorsa durante un’audizione al Senato
in riferimento alla reazione negativa di molti nell’FBI
all’archiviazione del caso Clinton.
Questo fermento aveva
probabilmente incoraggiato alcune fughe di notizie relative alla vicenda
Clinton a favore di politici Repubblicani, tra cui l’ex sindaco di New
York Rudolph Giuliani, e può ragionevolmente essere stato preso in
considerazione dalla Casa Bianca nella speranza di limitare il
contraccolpo del licenziamento di Comey, quanto meno all’interno
dell’FBI.
Vista la gravità del quadro in cui si trova a operare
l’amministrazione Trump, è evidente che la decisione di martedì potrà
comunque fare ben poco per risolvere la crisi politica attuale. Anzi, la
cacciata di Comey ha immediatamente moltiplicato le richieste di creare
una commissione d’indagine indipendente sul “Russiagate”. A chiederla
con maggiore insistenza sono stati i membri Democratici del Congresso,
ma a essi si sono allineati anche numerosi esponenti del partito di
Trump, alcuni dei quali hanno criticato apertamente la rimozione di
Comey.
L’addio forzato del numero uno dell’FBI ha aperto anche
un’ulteriore linea d’attacco per i nemici di Trump, accostato da molti a
Richard Nixon e alle vicende dello scandalo “Watergate”. Il riferimento
è andato in particolare al cosiddetto “Massacro del sabato sera” del 20
ottobre 1973, quando l’allora presidente costrinse alle dimissioni il
proprio ministro della Giustizia, Elliot Richardson, e il suo vice,
William Ruckelshaus, per essersi rifiutati di licenziare il procuratore
speciale Archibald Cox, incaricato di indagare sul “Watergate”.
Storicamente,
il parallelo sembra essere appropriato, vista anche la tendenza che
accomuna Trump e Nixon a disinteressarsi delle regole democratiche.
Tuttavia, dietro agli attuali attacchi contro la Casa Bianca non ci sono
forze genuinamente interessate alla difesa dei principi della
democrazia, bensì una campagna reazionaria basata sulla promozione di
interessi politici e strategici ben precisi.
Le forze che operano
contro Trump intendono cioè neutralizzare del tutto i propositi di
quest’ultimo di intraprendere un percorso distensivo con Mosca, ad
esempio attraverso una qualche collaborazione sulla guerra in Siria.
I
timori di quanti ritengono la Russia il principale ostacolo al
dispiegamento dell’influenza americana nelle aree strategicamente più
importanti del pianeta non sono stati infatti fugati da alcune
iniziative recenti di Trump che avevano fatto pensare a un ripiegamento
da parte del presidente, prima fra tutte il bombardamento ai primi di
aprile di una base aerea siriana.
Anzi, le apprensioni della
fazione anti-russa dell’establishment americano sembrano essere tornate
al di sopra dei livelli di guardia dopo gli sviluppi delle ultime
settimane, segnate, tra l’altro, da una telefonata “cordiale” tra Trump e
Putin, dal sostanziale via libera della Casa Bianca al piano russo
sulla creazione di “zone di de-escalation” in Siria, dall’invio di un
diplomatico americano di alto rango ai colloqui di pace in Kazakistan
promossi da Mosca e dalla visita di mercoledì a Washington del ministro
degli Esteri russo, Sergey Lavrov.
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