Impossibile entrare nel merito della nuova legge elettorale definita dai giornali Rosatellum: come
ogni riorganizzazione istituzionale degli ultimi trent’anni almeno, è
completamente disconnessa da qualsiasi riferimento sociale. L’escamotage elettoralistico trovato in extremis (sempre che passi al Senato) è, come evidente da tempo,
l’unico possibile. L’obiettivo esclusivo del sistema politico italiano è
impedire al M5S di conquistare la maggioranza dei voti e, tramite
questi, governare in autonomia il paese. Questa incoercibilità ha
diverse spiegazioni: da una parte, nessun ceto dirigenziale favorisce la
propria rottamazione; dall’altra, la natura informe del partito
grillino ancora “spaventa” le classi dirigenti del paese (nonostante
l’evidente torsione moderata-reazionaria): potrebbero bloccare la Tav,
sparare sui migranti al largo delle coste siciliane, introdurre il Bit
Coin come valuta ufficiale e, chissà, aprire un’ambasciata in Corea del
Nord. Sono, in altre parole, imprevedibili e incapaci, due proprietà
che, per l’appunto, spaventano quella classe dirigente che tanto ha
faticato per mettersi al servizio del sistema economico tedesco. In un
sistema elettoralmente tripolare l’unico strumento per impedire la
governabilità di uno solo dei soggetti in campo è favorire coalizioni
politiche trasversali. Il Rosatellum è nato proprio per questo.
Detto ciò, però, fanno riflettere le maggiori critiche espresse in
questi giorni dai delusi della riforma. Da una parte, il solito refrain sul
“parlamento di nominati”: i candidati sono infatti stabiliti dai
partiti e non indicati dall’elettore al momento del voto. L’altra
critica principale è quella, altrettanto abusata, dell’“inciucio” quale
conseguenza diretta della nuova legge. L’inciucio in questione non
sarebbe, attenzione, lo squallido accordo tra Pd e Forza Italia che si
intravede all’orizzonte. No, nella categoria dell’inciucio rientra ogni conformazione governativa
non espressa direttamente dall’elettorato al momento del voto. Il
“tradimento” della volontà elettorale sarebbe connaturato alla legge,
per il fatto stesso di prevedere l’inevitabile accordo tra i partiti in
vece dell’elezione diretta del governo “la sera stessa del voto”.
Queste due critiche sono state fatte proprie – come sbagliarsi – dalla “sinistra di lotta” al momento rappresentata da Mdp, Possibile e Campo progressista.
Qui nasce il primo dei molti problemi: di tutte le critiche possibili,
queste sono le meno centrate. Tralasciamo il dibattito sconsolante sui
“nominati” nelle liste di partito versus candidati “scelti dagli elettori”. Il sistema delle preferenze è stato da sempre, in
Italia come altrove, al cuore del rapporto tra mafia e politica e
dell’intreccio osmotico tra imprenditoria e partiti nei territori. Il
voto di preferenza è un voto di censo, anzi: un voto di casta e,
sovente, un voto di scambio: permette esclusivamente a chi detiene le
possibilità economiche di sostenere la propria candidatura, organizzare
in solitudine la propria campagna elettorale, raggiungere quella
visibilità mediatica che rappresenta l’unica arma possibile per farsi
conoscere sul territorio. Permette la formazione di “signori delle
tessere”, referenti para-mafiosi di migliaia di voti utilizzati come
scambio politico tra interessi economici. Non per questo, ormai, le
liste di partito rispecchiano l’effettiva vita militante all’interno
delle organizzazioni politiche (almeno di quelle principali). E’ questo
uno dei nodi che rende il dibattito sulla riforma elettorale
completamente slegato dagli interessi materiali della popolazione. Non
c’è una scelta possibile, ambedue le alternative rimangono oggi
conchiuse entro una visione liberale e liberista dei rapporti politici.
Per tale motivo impugnare la bandiera del voto di preferenza è una falsa
soluzione. In primo luogo, perché in teoria è meglio la lista di partito; in secondo, perché questa alternativa è ormai inattuabile.
Veniamo alla seconda obiezione che va per la maggiore: il Rosatellum sancirebbe
la necessità dell’inciucio post-elettorale. E qui, dobbiamo ammetterlo,
persino uno come Eugenio Scalfari(!) riesce a rendersi conto della boiata insita in una critica come questa. La forma di governo nazionale è ancora – e per fortuna – parlamentare: è
dentro il Parlamento, e nel confronto tra le forze politiche in base al
peso elettorale, che si decidono i governi, non direttamente nelle
urne. Questo fatto potrebbe apparire meno democratico dell’elezione
diretta, ma in realtà corrisponde a un’idea di democrazia superiore, ed è esattamente il punto focale attorno a cui ruotano tutti i tentativi di controriforma costituzionale
da un trentennio a questa parte: impedire la mediazione politica. I
motivi alla base di questa mediazione sono simili a quelli relativi alla
diatriba tra voto di preferenza e liste elettorali, che poi rimandano,
per altri versi, al dibattito intorno alla democraticità delle
“primarie” come sistema di selezione interna alla vita del partito.
L’assenza di mediazioni viene spacciata per democratizzazione della vita
politica del paese, ma così non è. Senza le necessarie mediazioni,
l’elettore è solo di fronte al candidato, o al governo. A prevalere
sarebbe sempre e comunque il candidato più visibile, cioè quello più
economicamente capace di imporre la propria presenza mediatica
(Berlusconi docet). Vale per il candidato alle primarie così come il
candidato premier. Viceversa, l’elezione non serve a eleggere il
governo, ma a eleggere i propri rappresentanti in Parlamento. E’
solo successivamente, in base al risultato elettorale e al rispettivo
peso specifico che ogni movimento o partito avrà in sede parlamentare,
che si stabilirà quale soggetto politico potrà governare il paese.
Bene, questioni note, si potrebbe dire. Eppure la “sinistra” di
questo paese, ribaltando gli assunti fondamentali dei ragionamenti qui
abbozzati, vorrebbe, in ordine: un sistema elettorale maggioritario al posto del proporzionale; un voto di preferenza dei candidati
al posto delle liste di partito; un sistema politico presidenziale al
posto dell’attuale sistema parlamentare. Ma questo è esattamente
l’obiettivo delle continue tentate controriforme costituzionali, come
abbiamo prima accennato. Ecco, questa “sinistra” proverà tra qualche
mese a chiedere il voto “contro il Pd” e in nome della “vera sinistra”
di governo. Una sinistra che, se si avverassero tutti i desiderata
elettoralistici sentiti in questi giorni, riuscirebbe a concludere il
piano di rinascita nazionale pensato a suo tempo da Gelli&soci. Un
risultato ragguardevole, bisogna riconoscere.
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