C’è
qualcosa di apparentemente incomprensibile, anche per gli analisti più
seri, nell’emergere dei cosiddetti “populismi” in quasi tutte le regioni
d’Europa.
Se escludiamo lo strombazzare di Renzi sul “Pd come argine ai
populismi”, alcuni analisti, presi come sono dall’applicazione degli
strumenti di interpretazione forniti dal pensiero unico neoliberista, al
massimo arrivano ad identificare un “antagonismo tra centro e
periferia” (Carlo Bastasin su IlSole24Ore
di oggi, per esempio), sbrigativamente identificati rispettivamente come regioni più
dinamiche e più arretrate sul piano economico. Nelle prime si
svilupperebbe un “populismo da ricchi” – derivante da una percezione
delle istituzioni pubbliche come “troppo lente” rispetto ai cambiamenti dell’economia digitalizzata – mentre nelle seconde prevarrebbe un
“sentimento” di abbandono, isolamento, declino, che porterebbe a
rivalutare visioni o identità nazional-regionali perse da un paio di
secoli o alcuni decenni.
Secondo
questa chiave di lettura Catalogna e lombardo-veneto (ma anche Londra,
Baviera, Olanda, ecc.) si assomiglierebbero molto, e così – sul fronte
opposto – Italia meridionale, Grecia, Spagna, Portogallo, ecc.
E’
una chiave narrativa che nasconde e mistifica quel che vorrebbe
“chiarire”. Catalogna e lombardo-veneto, per esempio, hanno generato due
“populismi” praticamente opposti. Il primo radicale, indipendentista,
socialmente evoluto, aperto ai flussi migratori e all’integrazione
multietnica, con una forte attenzione ai diritti sociali e al welfare, e
una altrettanto forte connotazione “etica”. Il secondo decisamente
gretto individualista, opportunista, xenofobo, profondamente corrotto e
corrompibile (non si possono dimenticare i profondissimi insediamenti
delle varie mafie nel sistema economico lombardo, per esempio), che
pretende autonomia fiscale e null’altro.
Dunque
non è in questo modo che si possono inquadrare e comprendere fenomeni
sociali e politici di così vasta estensione e dimensione.
Per
capirci qualcosa dobbiamo mettere in fila gli ultimi 30 anni, a partire
dalla “caduta del Muro”, in cui è stata costruita l’Unione Europea che
solo ora cominciamo a vedere nella sua configurazione reale (in cui gli
“ideali di Ventotene” contano come una mascherina di carnevale).
Un percorso faticoso e tortuoso, certamente, ma sempre guidato ferreamente da un interesse. Quello di un capitale multinazionale, sia industriale che finanziario, impegnato nell’imporre una progressiva concentrazione del potere decisionale complessivo in
“istituzioni” sottratte all’influenza (e alle oscillazioni ondivaghe)
della “sfera politica”. Non potendo qui ricostruire tutte le
tappe per motivi di spazio, ci limitiamo a riportare due “sentenze”
pronunciate dal più potente funzionario del capitale europeo, a lungo
ministro delle finanze tedesco, ovvero Wolfgang Schaeuble.
“Le
elezioni non cambiano il problema, perché se le regole dovessero
cambiare ogni volta che un nuovo governo viene eletto, l’Eurogruppo non
avrebbe alcuna utilità e la zona euro collasserebbe”. (http://contropiano.org/)
E la più recente “proposta di riforma” dei trattati: “espropriare
la Commissione europea dei poteri di controllo sui bilanci nazionali
affidandoli al Fondo salva Stati (Esm) con una applicazione delle regole
meccanica, ripulita da qualsiasi approccio politico e da ogni forma di
flessibilità” (http://www.repubblica.it/ http://www.ilsole24ore.com/)
C’è
una logica ferrea: l’economia è troppo importante per essere
condizionata dai mutevoli orientamenti politici dei vari Stati, ossia
dei popoli che scelgono i propri rappresentanti. Dunque occorre un
“sistema” – Mario Draghi l’ha definito “pilota automatico” – entro cui
le decisioni rilevanti sono prese in modo presuntamente “tecnico”.
E
questo sistema deve avere un potere superiore a quello dei singoli
Stati; dunque intangibile per via elettorale.
In
realtà è già in buona parte così. Ogni “legge di stabilità” – la più
importante legge di qualsiasi Stato, quella che ogni anno decide le
scelte politiche relative all’imposizione fiscale e alla distribuzione
della spesa pubblica – viene definita in un percorso che vede ad ogni
step la presenza di “istituzioni europee” che vagliano la corrispondenza
delle scelte alle “prescrizioni”. Indipendentemente dal colore del
governo di qualsiasi Stato, insomma, la politica economica e di bilancio
è in mano a organismi sovranazionali inaccessibili alla verifica
democratica.
La conseguenza di questa governance,
col passare del tempo e dei governi, è che “la politica” non può più
cambiare le cose che contano per le popolazioni. I tradizionali “corpi
intermedi” – partiti e sindacati – che raccoglievano domande e bisogni
sociali, trasformandoli in “programmi di riforma” economica o politica,
realizzabili almeno in parte una volta arrivati al governo, sono stati così a
loro volta svuotati di funzione. Nessun partito, oggi, in nessun paese
dell’Europa comunitaria, può più presentarsi agli elettori con un
programma credibile di “riforma”. Al massimo può promettere “più diritti
civili”, oppure “meno immigrati”, o un mix delle due cose.
Ma non salari decenti, diritti sul lavoro, welfare, sanità, pensioni,
ecc. Lì ci possono essere solo tagli per ridurre la spesa e il debito
pubblico.
Questa
situazione appare sempre più chiara col passare degli anni. E dunque
cresce il disagio sociale diffuso, creato proprio da questa evoluzione e
dalla certezza di non poter modificare le cose per via ordinaria
(partecipazione politica, voto, elezioni, ecc). In poche parole, la
“democrazia parlamentare” non può più funzionare. Ma se non funziona,
non si può neanche pretendere il consenso necessario per le decisioni più importanti, prese da “istituzioni” che non dipendono dai processi democratici.
La separazione tra decisione e democrazia parlamentare genera
reazioni diversissime – a seconda delle popolazioni, dello sviluppo
economico locale, delle culture e delle tradizioni – ma tutte accomunate
dalla confusissima “necessità di riprendersi” il diritto a influire
sulle decisioni importanti.
Chiamare
tutto ciò “populismo” è quasi un infortunio del linguaggio. Perché
riconosce involontariamente la natura del problema (“il popolo”,
depositario della “sovranità democratica”, pretende in qualche modo di
esercitare il potere di cui è stato espropriato), ma al tempo stesso la
condanna come “indecente” e “arretrata”.
I diversi “populismi” che tanto preoccupano ogni establishment – ultimo, per ora, quello catalano – sono il sintomo di una malattia giunta
allo stadio terminale. Ma per la quale le “istituzioni tecniche” non
hanno alcuna cura da offrire. In fondo, sono loro la causa.
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