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27/11/2017

Quale lavoro nell’epoca dell’industria 4.0?

In Germania la commissione di esperti che prende il nome di Sachverstaendigenrate ha relazionato al governo di Angela Merkel la situazione generale del Paese rispetto al tema del lavoro e delle sue sfaccettature. Ciò che di impattante è emerso, è che la giornata di 8 ore per questi esperti è obsoleta. “Le aziende hanno bisogno della certezza di non infrangere la legge se un dipendente partecipa di sera a una conferenza telefonica e se a colazione legge le mail”, ha spiegato Christoph Schmidt, presidente della commissione, “ormai l’idea che la giornata lavorativa inizi la mattina in ufficio e si concluda con l’abbandono pomeridiano dell’azienda è obsoleta e non flessibile”, ha specificato poi. “Le tutele dei lavoratori sono state efficaci in Germania, ma alcune di esse non si adattano più al mondo del lavoro digitalizzato”[1]. E’ proprio questo il punto. Siamo sicuri che l’introduzione continua di nuove tecnologie (digitali e non), mascherate come miglioramento del comfort e dell’ergonomia, siano strumenti neutri? Siamo convinti che la cosiddetta rivoluzione tecnologica porti benefici a chi produce la ricchezza reale in ogni Paese, ossia, i lavoratori?

Forse, in “Quaderni Piacentini” e in altri scritti di sociologia del lavoro e del movimento operaio[2], non si era già analizzato ed evidenziato che dietro l’introduzione di metodologie e tecnologie innovative di produzione si nascondesse un aumento delle produttività e del controllo?

Se da un lato, la necessità fisiologica di espulsione di esuberi, (ad ogni “ristrutturazione” e/o introduzione di nuove metodologie e tecnologie applicate, viene richiesta la presenza solo di operai e tecnici specializzati), genera flotte di disoccupati e sposta il controllo reale del prodotto sui quadri e supervisori (centri di controllo e gestione), dall’altro, aumenta il controllo dei metodi di sciopero e di lotta per impedire i licenziamenti e migliorare le condizioni di lavoro. Non è forse così, rendendo tutto più “smart”, abolendo i limiti di orario di lavoro giornaliero, spalmandoli sull’orario settimanale, cancellando il limite tra tempo di lavoro e tempo di vita che si sovraccaricano i lavoratori che permangono dentro al mercato del lavoro, generando oltre che lavoratori alienati, persone alienate dalla loro stessa vita, alieni di e da se stessi? Che ripercussioni ha tutto questo in termini di salute e sicurezza sul lavoro e di salute pubblica e quali effetti in termini sociali?

Qualche anno fa, da un’inchiesta fatta dal quotidiano La Repubblica, emergeva come il fenomeno dell’utilizzo di cocaina in ambito lavorativo, fosse caratterizzato da un’espansione di natura trasversale tra categorie estremamente eterogenee e con lo specifico fine di aumentare la prestazione, cioè di consentire ai lavoratori che ne fanno uso di gestire stress e senso di inadeguatezza. Questi due fattori psico-sociali dovrebbero far riflettere, soprattutto chi si occupa nei vari ambiti e nei vari livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, su dove stia andando la cultura del lavoro, la valorizzazione del lavoro e della vita sociale e personale, il senso del lavoro stesso[3].

Stress e senso di inadeguatezza: il primo fattore è influenzato dall’ambiente di lavoro, intenso come risposta che l’individuo elabora verso quell’ambiente e in quell’ambiente, ed è condizionato dall’organizzazione del lavoro, dalle relazioni tra colleghi e con i superiori (fondamentale se l’organizzazione, come la maggior parte di quelle esistenti al mondo dove il profitto è privato, ha un’impostazione verticistica e gerarchica), dai ritmi di produzione; il secondo, è un aspetto ricollegabile al mondo del lavoro che cambia, si evolve, si digitalizza sempre più, vista da una prospettiva ottimistica degli “esperti economisti”, è l’utilizzo della formazione continua professionale sia in età adulta che in età scolare, (vedi ad esempio l’Alternanza Scuola Lavoro). Non è forse da anni in corso, dalle scuole all’università, un processo educativo di fidelizzazione? Richiamando e scomodando Renato Curcio, nel suo libro “Il consumatore lavorato” (dove vengono analizzate le tecniche di fidelizzazione dei lavoratori nei supermercati della Grande Distribuzione Organizzata, applicate a specifiche tipologie organizzative del lavoro) si smaterializza la linea di demarcazione, come per la proposta di abolizione delle otto ore di lavoro giornaliere in Germania, tra lavoratore e consumatore, tra lavoro e vita. E ora le si applica anche come pedagogia nel sistema scolastico e universitario. La scuola e l’università si aprono al mercato del lavoro.

Qualche “eticista” del lavoro dirà che il lavoro stesso è vita. Il lavoro è, e resta, un mezzo per produrre ricchezza, un mezzo per soddisfare i bisogni, ma la domanda è: questa ricchezza prodotto verrà poi re-distribuita e a quale costo in termini di salute e felicità? Tutto questo, con il rischio di lasciare indietro chi non si adegua o non si può adeguare: aumento età lavorativa, maggiore presenza di lavoratori anziani, conseguente aumento di patologie collegate al lavoro e infortuni (disadattamento e disabilità da lavoro), nessuna diversificazione tra lavori usuranti e non. Questi i rischi.

Cosa significa quindi non tracciare un linea di separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro, in una società delle “24 ore” completamente totalizzante in termini di produzione di profitto? Basti pensare che anche mentre utilizziamo un social network stiamo producendo ricchezza in termini di informazioni per i gestori della rete, colossi del tipo Google.[4] Significa forse inglobare il lavoro e i suoi derivati, anche negli ambiti relazionali personali ed essere sempre a disposizione delle proprie aziende, controllati in ogni momento?

Recentemente, il D.Lgs. n. 151/2015 (Jobs Act) ha apportato alcune interessanti modifiche al testo dell’art. 4, legge n. 300/1970, riguardo al controllo dei dipendenti. Il principale scopo del legislatore è stato probabilmente quello di prendere atto che le tecnologie telematiche hanno reso decisamente problematica l’applicazione di norme emanate quasi mezzo secolo fa, quando telefoni cellulari e smartphone, personal computer e tablet, internet, posta elettronica erano per lo più ancora in fase di ideazione[5]. In effetti, tali nuove tecnologie hanno superato la distinzione concettuale, contenuta nell’art. 4 Statuto dei lavoratori, tra strumento deputato al controllo e strumento di lavoro: gli strumenti sopra citati infatti, costituiscono nell’attuale sistema di organizzazione del lavoro “normali” strumenti per rendere la prestazione lavorativa, ma consentono al contempo un controllo continuo e capillare sull’attività del lavoratore, come del resto ha affermato la Corte europea dei diritti umani con sentenza n. 61496/08 del 12 gennaio 2016: personal computer fissi e portatili, tablets, registratori di cassa elettronici, telefoni cellulari semplici, telefoni cellulari smartphone, radio ricetrasmittenti, abbigliamento tecnologico (indumenti di lavoro corredati da sistemi di comunicazione radiotelefonici e GPS)[6]. E’ proprio su quest’ultima tipologia tecnologica, considerabile strumento di lavoro atto a garantire un’ottimizzazione della prestazione lavorativa, anche in termini di sicurezza per il lavoratore, che già qualche azienda ha visto la sua applicazione per i motivi appena citati, in particolar modo nel settore logistico, caratterizzato da hub con magazzini giganteschi e attivi ad ogni ora e giorno, spesso automatizzati o semi-automatizzati. Un esempio, quello dell’azienda Tesco che ha adottato un braccialetto (smart watch) per controllare il lavoro e impartire ordini ai propri dipendenti, tramite questa “wearable tecnology”[7].

In questo “evolversi” del lavoro sussunto al profitto, nel conflitto di classe, la risposta alla prima domanda, è che l’applicazione delle tecnologie digitali e non, non sono un mezzo neutro, così come ora, e investono tutti i settori lavorativi: dalle fabbriche robotizzate della FCA Group che adottano metodologie di lavoro non riconosciute da nessun ente che si occupi di ergonomia[8], ai magazzini della logistica, alle consegne dei rider nelle città (vedi proteste lavoratori Foodora), alle campagne e alle fabbriche abusive del tessile dove permangono condizioni di schiavitù, ai lavori di concetto e del terzo settore. Questo lo dimostra il fatto che la maggior parte delle aziende non investe le stesse risorse economiche e di sapere per garantire condizioni di salute e sicurezza dignitose, come avviene per l’innovazione e la ricerca, ai fini dell’introduzione di tecnologie avanzate se non nei termini dell’aumento della produttività. Storicamente infatti, ad ogni cambio epocale nelle modalità di produzione, aumentano i livelli di disoccupazione ed inoccupazione forzata. A questo si aggiunge che nella dinamiche di centralizzazione e di concentrazione dei capitali, le grandi aziende scelgono di esternalizzare anche i costi relativi ai due aspetti, parcellizzando il lavoro e scaricando tutto sulle aziende appaltatrici e queste a loro volta, alle sub-appaltatrici. Tale effetto a cascata, è consentito anche dagli impianti normativi presenti in molti Paesi del mondo.

Questa non vuol essere un’apologia misoneista, ma un invito ad interrogarci e dare delle risposte reali su dove voglia indirizzare il mondo del lavoro chi ci governa, nel solo nome del profitto, con tutti i suoi aspetti collegabili alla salute, alla società, all’umano, alla vita stessa. Fino a quando il lavoro non sarà proprietà dei lavoratori e mezzo di produzione per la ricchezza condivisa, e forse mai lo sarà, fino a che esisteranno disoccupati, morti e invalidi da lavoro (nell’Unione europea 7,1 milioni il totale, 3,4 per decessi e 3,7 per disabilità, anni di vita persi per disabilità o morte derivanti da una malattia), precari, discriminazioni di etnia e genere, ricatto, schiavitù, non si potrà dormire tranquilli. A maggior ragione chi, per sensibilità, ha scelto di occuparsi di questo come professione o come senso della propria condizione materiale ed esistenziale.

Lo slogan degli anni ’70 “Lavorare meno, lavorare tutti”, diventa sempre più una necessità, perché presto il lavoro come lo conosciamo, forse scomparirà, e sarà preoccupante se non saremo noi a controllare questo passaggio storico, perché ancora una volta, ne subiremo le contraddizioni.

Renato Turturro

Note:

[1] Link: http://www.huffingtonpost.it/2017/11/20/in-germania-si-va-verso-laddio-alle-8-ore-di-lavoro-al-giorno-norma-obsoleta-in-un-mondo-digitale_a_23282621/

[2] Cfr. A cura di M.Ancona, F. Steri, Proletari industriale e Organizzazione del lavoro – Antologia – Ed. Savelli 1975

[3] Link: http://www.infodata.ilsole24ore.com/2015/04/02/aumenta-luso-di-farmaci-in-italia-il-consumo-di-antidepressivi-regione-per-regione/

[4] Cfr. C.Formenti, Felici e sfruttati, Egea, 2011.

[5] Cfr. V. Meleca, Il Grande Fratello in azienda, in Dir. prat. lav., 1993, 2927 e Il Grande Fratello in azienda – tra privacy e controlli a distanza, Isper, 2002.

[6]Link: http://www.dottrinalavoro.it/wp-content/uploads/2016/08/JOBS-ACT-E-NUOVI-CONTROLLI-A-DISTANZA.pdf

[7] Cfr. “Tecnologie indossabili, il braccialetto per monitorare i dipendenti”, M. Serafini, Corriere della Sera, 14/10/2009

[8] Sull’argomento: Ergo-UAS. La metrica del lavoro che fa male – P.R.C. ABRUZZO -2013.

da Osservatorio contro la repressione

Fonte

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