di Roberto Prinzi
Dopo più di tre
settimane di detenzione in seguito alle purghe “anti-corruzione” del
principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, sono stati rilasciati ieri in Arabia Saudita due figli del defunto re saudita Abdallah, l’ex capo della Guardia nazionale Miteb (65 anni) e suo fratello Turki.
Non è chiaro però se al momento i principi siano effettivamente liberi
di muoversi, in particolar modo non si sa se Miteb possa o meno
viaggiare o sia costretto a restare nel Paese. Non aiuta a dissipare i
dubbi in tal senso il no comment finora scelto da Riyadh. La Reuters –
citando una fonte saudita – aveva scritto ieri che per poter essere
liberato Miteb avrebbe pagato una somma monstre pari a un miliardo di dollari. Altri tre membri della famiglia reale – ha aggiunto la fonte – avrebbero raggiunto simili accordi con le autorità locali.
Nonostante il silenzio di Riyadh, la presunta intesa economica (o diktat?) appare avere una buona base di credibilità: lo
stesso principe “riformatore” Mohammed bin Salman aveva detto la scorsa
settimana al New York Times che il 95% degli ufficiali accusati di
corruzione ha evitato l’arresto pagando le somme in denaro “acquisite
illegalmente”. Anche la statunitense Bloomberg ha fatto sapere
che i membri della famiglia reale starebbero negoziando accordi
finanziari in cambio della liberazione. Tra questi, scrive il portale
Middle East Eye, ci sarebbe anche il ricchissimo e potente principe
Waleed bin Talal. La libertà, del resto, ha un costo: re Salman e il
figlio lo sanno bene e vogliono perciò ora battere cassa. Quale più
gustosa occasione se non spillare soldi ai propri ricchi familiari?
L’espressione parenti-serpenti varrà anche in Arabia Saudita.
Se Miteb bin Abdallah è stato ieri rilasciato dopo il suo soggiorno coatto nell’hotel a cinque stelle Ritz-Carlton di Riyadh, restano tuttavia ancora molte ombre sulla sua detenzione. A inizio mese Middle East Eye ha sostenuto che il figlio dell’ex re Abdallah è stato torturato insieme ad altri cinque principi
durante gli interrogatori dell’inchiesta anti-corruzione. Il portale
statunitense riferì allora che tutti e sei membri della famiglia reale
furono ricoverati in ospedale in seguito al loro arresto: uno di loro fu
addirittura ammesso nell’unità di terapia intensiva, segno che le sue
condizioni di salute sono state a rischio.
Miteb e suo fratello sono stati arrestati in Arabia Saudita insieme
ad altre duecento persone (principi, ministri in carica e non ed ex
ufficiali) nel più imponente giro di vite anti-corruzione che ha avuto
luogo negli ultimi decenni nella monarchia wahhabita. Non pochi
commentatori hanno letto però questo improvviso “spirito legalitario”
del sovrano Salman come pretesto per rafforzare il potere di suo figlio
Mohammed, re in pectore del Paese.
Miteb bin Abdallah, del resto, era un figura molto importante nel panorama politico locale:
essendo figlio di re Abdallah sarebbe dovuto essere, prima
dell’ascensione al trono di Salman del 2015, il futuro monarca saudita.
Fino a poche ore prima dell’arresto di novembre, inoltre, controllava la
guardia nazionale, una delle tre principali forze dell’esercito
saudita. Non solo: anche simbolicamente è l’ultimo membro dell’influente
ramo Shammar della famiglia reale saudita a ricoprire una posizione
importante.
I prodromi delle purghe di Salman (sottovalutati da stampa e tv internazionali) si erano avuti a giugno: allora però non era stata la presunta sete di legalità del sovrano 82enne a muovere l’apparato repressivo della monarchia. L’obiettivo
fu (ufficialmente) la “sostituzione” del principe ereditario Mohammed
bin Nayef (58 anni) con il giovane figlio 32enne, Mohammed.
Un passaggio di consegne per nulla democratico e pacifico (dopo tutto siamo in Arabia Saudita, c’era da aspettarselo): le forze di sicurezza dirette dal sovrano e dal suo potente rampollo misero di fatto a bin Nayef ai domiciliari,
molto probabilmente per impedirgli di resistere alla deposizione
sfruttando la sua influenza all’interno delle forze interne di
sicurezza. Ma non si limitarono a questo: se in un primo momento sulla sua rimozione calò un silenzio ufficiale assordante (paradossale, trattandosi pur sempre di una figura di spicco con importanti sponsor soprattutto negli Usa), ben presto si optò per denigrarlo pubblicamente sui media statali e sui social media.
Una scelta “originale” perché contrasta con le norme consuetudinarie
della monarchia per le vicende riguardanti la casa reale, ma che è
apparsa legittima e utile ai due Saud al governo: giustificare e coprire agli occhi dell’opinione pubblica locale (e internazionale) il loro abuso politico.
Bin Nayef, si scrisse e si disse allora, faceva uso di antidolorifici e
di cocaina. Segregato agli occhi del mondo e della popolazione saudita
per mesi, l’ex principe ereditario è ricomparso in pubblico lo scorso
mese durante un funerale di famiglia: secondo alcuni ufficiali
statunitensi la sua apparizione non è stata casuale, ma frutto di una
intesa con Mohammed bin Salman.
Mai fidarsi però del giovane “riformatore modernista” esaltato
tuttora da gran parte della stampa occidentale: il giorno dopo la
diffusione in rete di un video in cui bin Nayef riceveva diversi
attestati di stima e di apprezzamento al funerale, il suo conto è stato
bloccato. Pura coincidenza frutto dell’improvviso amore per la legalità
del duo Saud o dispettuccio figlio di invidia giovanile? Di certo bin
Nayef avrà incassato la solidarietà di altri principi: secondo fonti
statunitensi, infatti, sono 600 i conti bancari congelati dalla
monarchia.
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