di Michele Giorgio il Manifesto
«Non accetteremo
alcuna estorsione o pressione degli Stati Uniti», avverte perentorio il
ministro degli esteri palestinese, Riad Malki. Protesta anche la Lega
araba – ma sarebbe più giusto chiamarla Lega «saudita» – che tra
attacchi all’Iran e accuse a Hezbollah ha trovato qualche minuto per
rioccuparsi dei palestinesi.
Comunque vada a finire l’annunciata decisione del
Dipartimento di Stato americano di chiudere la missione palestinese a
Washington se i palestinesi non entreranno subito «in negoziazioni
dirette e significative con Israele», rappresenta un ricatto a tutti gli
effetti.
Trump, è fin troppo evidente, vuole imporre
all’Anp del presidente Abu Mazen di negoziare con il premier israeliano
Benyamin Netanyahu sulla base di quel «piano di pace» statunitense, noto anche come «il grande accordo del secolo», di cui si vocifera da tempo e che per ora resta nel cassetto. E
poi c’è l’oscura norma Usa secondo cui la missione dell’Olp deve essere
chiusa se i palestinesi tenteranno di spingere la Corte penale
internazionale a procedere contro Israele, come ha chiesto Abu
Mazen lo scorso settembre all’Assemblea Generale dell’Onu dopo aver
denunciato l’espansione incessante degli insediamenti coloniali
israeliani e le aggressioni contro il suo popolo sotto occupazione
militare.
L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) aprì tra cerimonie e fanfare una missione a Washington nel 1994, dopo la firma degli accordi di Oslo con Israele.
ORA, DOPO OLTRE 20 ANNI, il ricatto americano. O Abu
Mazen accetta senza fiatare il piano Usa o perderà la rappresentanza e,
in futuro, molto di più. Piano americano che, stando alle
indiscrezioni, prevede che la questione palestinese sia risolta
all’interno di una trattativa ampia, regionale, tra Israele e i paesi
arabi, in particolare l’Arabia Saudita e le altre monarchie sunnite.
A inizio anno, ricevendo Netanyahu alla Casa bianca, Trump
prese le distanze dalla soluzione a due Stati (Israele e Palestina)
dicendosi disposto a sostenere qualsiasi pace, lasciando intendere anche senza la creazione di uno Stato palestinese.
FONTI ISRAELIANE affermano che il piano di
Trump sarà basato sul riconoscimento Usa di uno Stato palestinese
accanto a Israele ma non lungo i confini del 1967 e senza lo sgombero di
alcun insediamento coloniale ebraico costruito dopo il 1967 nei
Territori occupati. In sostanza ai palestinesi verrebbe
restituito solo qualche chilometro quadrato di terra in più rispetto a
quanto già controllano ora (ma solo civilmente): la Zona A e la Zona B,
rispettivamente il 14% e il 20% della Cisgiordania occupata.
La parte restante della Cisgiordania, la zona C, e tutta Gerusalemme
andrebbero a Israele, poiché vi vivono centinaia di migliaia di coloni
israeliani.
A CONTI FATTI all’ipotetico Stato palestinese andrebbe meno del 40% di quel 22% della Palestina storica
che rimase dopo la fondazione dello Stato di Israele e la guerra del
1948, oltre alla minuscola e isolata Striscia di Gaza (meno di 400 kmq).
Senza dimenticare che questo Stato non avrà il controllo della
frontiera con la Giordania, un suo spazio aereo e piena sovranità poiché
il piano Trump, spiegano i media locali, offre a Israele le massime garanzie di sicurezza. Si tratterebbe di un bantustan legalizzato, riconosciuto dalla comunità internazionale.
INTANTO LA LEGA araba-saudita, mentre chiede al governo degli Stati Uniti di non chiudere in modo punitivo l’ufficio dell’Olp a Washington, porta appoggio all’assalto all’Iran e al suo alleato Hezbollah lanciato dalla monarchia Saud.
Lo scontro tra Riyadh e Tehran ormai è planetario pur concentrandosi in
Siria, Libano e Yemen. Nel corso della riunione straordinaria della
Lega araba l’altro giorno al Cairo, il ministro degli esteri saudita,
Ader al Jubeir, ha avvertito con tono minaccioso che «L’Arabia Saudita
non resterà a guardare le aggressioni (iraniane) e non esiterà e
difendere la sua sicurezza nazionale per garantire l’incolumità dei suoi
abitanti».
IN APPOGGIO IL BAHREIN, fedelissimo alleato del re
saudita Salman e dell’erede al trono Mohammed, ha prontamente accusato
il Libano di essere sotto il completo controllo di Hezbollah. Per tutta
risposta, su ordine di Beirut, il ministro degli esteri libanese, Gebran
Bassil, non ha partecipato alla riunione della Lega araba.
IL PRESIDENTE LIBANESE Aoun ha difeso Hezbollah negando ieri l’accusa di «terrorismo» che gli rivolgono le monarchie sunnite.
Più di tutto ha difeso le armi del braccio militare del movimento
sciita che, ha spiegato, servono «per difendere il paese da Israele». Il
clima è sempre più infuocato a Beirut dove domani si attende il
rientro, dopo oltre due settimane, del premier Saad Hariri che ha
presentato le dimissioni mentre era in visita a Riyadh lanciando accuse
pesanti a Hezbollah e Tehran.
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