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20/11/2017

Arabia Saudita, oltre il vulcano bin Salman

Cosa cercava nelle sue osservazioni dentro e ai margini di Riyadh lo studioso Pascal Ménoret quando ha speso mesi e mesi dietro alla moda del drifting? Che è un genere di guida giocata su acceleratore e volante, facendo ondeggiare, slittare, sbandare l’auto, tirando a manetta fra il delirio del conducente e passeggeri esagitati sporti dal finestrino. Il fenomeno è stato ufficializzato anche come gara (sic), per ora solo locale, senza riconoscimenti di organismi internazionali. Lateralmente si trascina comportamenti marginali da fuori di senno, gente che guida così per certi rettifili della capitale saudita in mezzo al traffico, inducendo la polizia a intervenire più o meno duramente. Questo comportamento è solo il più vistoso fra quelli indagati dal ricercatore che opera presso l’Università di Cambridge, la stessa del nostro Regeni, trattando sicuramente tematiche meno scomode per i Palazzi. Ma nel suo già famoso Joyriding in Riyadh Ménoret va oltre il fenomeno in sé. Perché sembra che questi cacciatori di emozioni adrenaliniche, siano solo parzialmente simili alla ‘Gioventù bruciata’ messa su pellicola da Nicholas Ray. Manifestano sicuramente marginalità e disagio, ma anche un desiderio di evasione dal vuoto di obiettivi che crea un buco esistenziale.

Tutto ciò si lega a problemi sovrastrutturali connessi alla storia politica e sociale della monarchia, modernizzata negli anni Trenta e rimasta bloccata per decenni, in una nazione giunta a quota 30, per milioni di abitanti e per età di oltre la metà dei cittadini. Per quel che il ricercatore ha visto e scritto, le ‘corse della follìa’ sono praticate sì, da qualche rampollo di buona famiglia, ma soprattutto da tanti ragazzi del deserto. Dunque dai figli di tribù beduine negli ultimi anni inurbatisi in una Riyadh diventata metropoli da sei milioni di cittadini. Lì, al di là degli avveniristici grattacieli di rappresentanza-affari-finanza, esistono periferie e ghetti, ceti marginali e sottomarginali. Luoghi non necessariamente per minoranze etniche e religiose (in genere perseguitate), ma dove sopravvivono gli stessi sunniti diciamo fuori dal coro, coloro poco ossequiosi e flessibili ai voleri di una corona tradizionalista e antica in via di rinnovamento. Da qui, secondo Ménoret, partono i giovinastri che rubano auto per il gusto di farsi una guidata a 240 orari, rischiando l’osso del collo. In genere fanno la bravata, pericolosa per loro e per chi dovessero tamponare, e fuggono. Se la polizia li pizzica, usa la mano pesante e non solo la mano. Strana Arabia, mondo antico e moderno, che il nuovo volto del regime – Mohammed bin Salman – vuole ulteriormente modernizzare.

Ma come? e per fare cosa? Questo è il percorso di comprensione che i politologi devono seguire, alla luce dei molteplici passi interni ed esterni compiuti dal principe che ha scalato rapidamente le vette del potere, sia per la sopraggiunta debolezza paterna, sia per l’appoggio di alleati vicini (alcuni sceicchi locali e di altri Paesi del Golfo ridotti a vassalli) e di protettori lontani (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna) ciascuno stretto ai propri interessi vecchi e rinnovabili. Con le mutazioni in atto del quadro mediorientale i Saud decidono di stringere le fila nel cosiddetto Consiglio della cooperazione del Golfo, marchiando il bene di alleati di ferro (Emirati Arabi) e subordinati (Bahrein, Oman più lo Yemen da conquistare manu militari). Emarginare e sconfiggere il male delle pretese qatariote, chiarire al Kuwait qual è l’asse vincente nei confronti del nemico di sempre: l’Iran. Tali passi coinvolgono in un fiato politica estera locale, regionale e internazionale, visto che dietro le alleanze geostrategiche e finanziarie si collocano anche i grandi della terra; inoltre si dà un riflesso alla politica interna. Bin Salman ha accelerato tutto questo, e sembra guidare il Paese come quei giovani del drifting fanno con l’auto.

Ma la corsa di MbS, all’apparenza folle, ha direzioni precise. Crea un nuovo blocco di adesioni, cercando di scardinare i ‘tradimenti’ familiari di personaggi come bin Nayef, morbido col Qatar e dunque sospetto, fa anche piazza pulita delle tante pretese di figli, figliastri, nipoti e pronipoti del clan Saud, tutti pretenziosi coi sussidi della corona mentre lanciano incontrollati affarismi personali. Con simili repulisti il principe si fa nemici in casa, ma lui apre la casa-nazione (non i forzieri) al sogno della modernità che può offrirgli consenso attorno alle riforme (la legge sulla guida alle donne, la loro partecipazione alla vita pubblica senza i guinzagli del ‘parentame’). Detta all’occidentale: mosse populiste, rivolte qui alle donne oppure ai giovani verso cui il futuro re mira a contenere il ruolo repressivo della polizia religiosa in fatto di comportamenti trasgressivi su passatempi, consumo di alcol e rilassamento dei costumi. Poi per riequilibrare l’impatto e la forza del wahabismo, che caratterizza gran parte dell’Islam saudita sul fronte religioso e sulla regolamentazione dello Stato, tanto ché sono le interpretazioni di Corano e Summa a fare le leggi, l’ammansisce rivolgendola all’esterno. Così gli imam salafiti non si sentono emarginati e possono continuare a predicare le loro jihad.

Riassumendo: minore repressione interna e più esterna, cercando nuovi nemici. Così rinfocolando la storica rivalità sunnismo-sciismo, con quest’ultimo nel ruolo di infedele da combattere sul piano teologico per questione di purezza dell’Islam, di conservazione dei luoghi santi e della dottrina, si può rilanciare quell’invadenza geopolitica ufficiale, già da un biennio in atto nello Yemen contro gli sciiti Houti. Quella ufficiosa, incentrata sul terrorismo jihadista va avanti da tempo, introdotta su scenari sempre nuovi. Scendere su ulteriori terreni di confronto-scontro nel Medio Oriente vicino e lontano, sino a minacciare direttamente l’Iran, trova l’abbraccio dell’America, non solo quella trumpiana, e dei servitori occidentali della Nato. E può compattare la gioventù senza stimoli e passioni, peraltro marginalizzata nel Paese. Ovviamente è un azzardo, perché le ‘generazioni del fronte’, proprio l’Iran khomeinista insegna, necessitano di pulsioni ideologiche molto forti. Ma i panorami degli ultimi anni tali motivazioni le hanno trovate nei miliziani irregolari che combattono più delle truppe irreggimentate. Quale azzardo di guerra bin Salman intenda inseguire forse è presto per dirlo, però la sua modernizzazione punta solo alla salvezza della propria stirpe, non dei sauditi, a danno di una normalità di vita. Chi ha introdotto simili modelli basati sull’aggressione mascherata da difesa lo comprende benissimo. Per questo Israele approva e plaude.

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