di Stefano Mauro
La Corte Suprema di
Nuadhibou in Mauritania ha emesso il suo verdetto giovedì 9 novembre:
Cheick Ould Mohammed Mkhaitir è stato condannato a due anni di prigione
ed al pagamento di un’ammenda per aver pubblicato un articolo giudicato
“blasfemo”. L’uomo, che aveva già scontato quasi quattro anni, è stato
quindi rilasciato.
Il verdetto, nella sala del tribunale, è stato accolto da
grida ed insulti nei confronti della corte e del governo, da parte di
numerose persone, giunte da diverse parti del paese, per sostenere la
sua condanna a morte. Le stesse forze di polizia hanno dovuto
reprimere numerose manifestazioni nella capitale Noukchott contro
manifestanti che protestavano contro le autorità colpevoli “di aver
scelto l’occidente e non la difesa della religione e del Profeta”.
Il giovane trentenne blogger era incarcerato dallo scorso
gennaio 2014 ed era stato condannato a morte per “apostasia”, la prima
nel paese dalla sua indipendenza nel 1960. Circa quattro anni fa, infatti, le autorità mauritane lo avevano arrestato dopo che il quotidiano Aqlame
aveva pubblicato un suo articolo che criticava “l’utilizzo della
religione per giustificare alcune discriminazioni nella società
mauritana”, dove esiste ed è tollerata ancora la schiavitù.
Qualche mese più tardi, il 21 aprile 2016, la corte d’appello aveva
confermato la sentenza non più per “apostasia”, ma per “miscredenza” –
reato considerato meno grave – in virtù del pentimento da parte di
Mkhaitir e rinviando il suo dossier alla Corte Suprema. Lo stesso Forum
degli Ulema, creato nel 2014 per la difesa dei costumi e del Profeta,
aveva richiesto la morte del blogger considerato “apostata e blasfemo”.
La condanna a morte aveva provocato un’alzata di scudi ed una
campagna di pressioni da parte delle organizzazioni per i diritti umani.
Amnesty International e Human Right Watch (Hrw) avevano più
volte lanciato appelli e richiesto una sospensione della sentenza. “Il
condannato è un detenuto per opinione – ha dichiarato dopo la
sentenza Sarah Leah Whitson, direttrice della divisione di Amnesty per
l’Africa – E’ incarcerato esclusivamente per aver affermato il suo
diritto alla libertà di espressione e per essersi opposto alle
discriminazioni attraverso un articolo su un blog”.
Secondo Hrw il clima è talmente teso che, in questi anni, numerosi
difensori dei diritti civili e sostenitori di Mkhaitir hanno ricevuto
minacce di morte. Stesse persecuzioni anche per i suoi genitori che sono dovuti fuggire dal paese e hanno trovato rifugio in Francia.
Di positivo in questa vicenda c’è solamente la libertà e la salvezza
del giovane blogger perché questo episodio, l’ennesimo, è purtroppo la
punta di un iceberg per ciò che concerne i diritti umani inerenti la
sfera religiosa.
Secondo i dati contenuti nel Rapporto 2016 sulla pena di morte nel
mondo dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, infatti, la situazione
legata ai reati di opinione o riguardanti la sfera religiosa è molto
grave. In alcuni paesi islamici, ad esempio, «convertirsi dall’Islam ad
un’altra religione, essere ateo oppure offendere il profeta Mohammad è
considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale». Il
reato di apostasia è punito con la morte in 12 paesi musulmani:
Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Nigeria (solo negli
stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Arabia Saudita,
Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Yemen.
“L’aumento e la diffusione del credo wahhabita (visione radicale e
retrograda dell’Islam di matrice saudita) in molti paesi musulmani ne è
la diretta causa – secondo Mohammad Mahmud Ould Mohamedu, mauritano e
docente universitario esperto di Islamismo e Radicalismo all’Università
di Ginevra – Prova ne sono anche le esecuzioni sommarie per «reati»
legati alla religione attuate da gruppi estremisti islamici: Al-Shabaab
in Somalia, Boko Haram in Nigeria, i Talebani in Afghanistan e l’ISIS in
Iraq e in Siria”.
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