Nella ridda di dichiarazioni rilasciate da questo o da quello in occasione della morte di Totò Riina (avvenimento al quale è stato sicuramente dedicato un eccessivo spazio mediatico) ha colpito una dichiarazione del ministro dell’interno Minniti, al riguardo di un “patto da stabilire tra le forze politiche per rifiutare il voto delle cosche mafiose”.
Quale significato assume questo tipo di dichiarazione?
Pare riassumibile in due punti: il primo, quello davvero più ovvio, riguarda l’ammissione di un passato (e di un presente, in Sicilia si è votato proprio in questo stesso novembre 2017) nel quale il voto delle cosche mafiose arrivava regolarmente alle forze politiche, almeno a quello collocate in una certa dimensione all’interno della complessa situazione siciliana. Naturalmente non può essere dimenticato il voto della n’drangheta in Calabria, della Sacra Corona Unita in Puglia, della camorra in Campania e quanto – da moltissimi anni – il voto della criminalità organizzata abbia pesato anche nelle altre regioni d’Italia, laddove queste “onorate società” hanno sviluppato attività economiche quale copertura legale del riciclaggio di denaro.
In secondo luogo non può non essere rimarcato l’interrogativo del come si porrebbe un eventuale “patto” (stipulato come?) al riguardo della legislazione vigente in Italia, che fin dal 1992 (anno della presunta trattativa stato – mafia di cui si è tanto discusso anche in sede processuale) si occupa proprio del voto di scambio in relazione all’ambito mafioso.
In Italia il voto di scambio, infatti, non è di per sé una fattispecie di reato autonoma, tranne che nel momento in cui possa essere ascritto a soggetti a cui possa essere contestata attività di cui all’art 416 bis del codice penale.
Il voto di scambio può manifestarsi in un rapporto diretto fra politico ed elettore e/o con l’interposizione di interessi di organizzazioni mafiose, in cambio di denaro o di una raccomandazione per un posto di lavoro. Nel 1992 venne introdotta, per contrastare le organizzazioni di stampo mafioso la fattispecie dello scambio elettorale politico-mafioso.
Il 16 aprile 2014 il senato ha approvato in via definitiva la modifica dell’art 416 che disciplina le sanzioni penali sul voto di scambio politico-mafioso. Il nuovo testo dell’articolo 416-ter prevede che chiunque accetti la promessa di procurare voti in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità (cancellato il termine ”qualsiasi” riferito ad altre utilità) è punito con la reclusione da 4 a 10 anni mentre, nella vecchia formulazione, la reclusione era compresa da 7 a 12 anni. In sostanza una “diminutio” nella casistica e nella pena.
Come si pone allora l’idea ministeriale del “Patto” in relazione alla legge?
E’ evidente che siamo di fronte all’esistenza di fenomeni massicci di condizionamento del voto e che il punto non risiede nel tipo di disposizioni legislative, ma nella strutturazione dell’azione politica da parte dei partiti e dei candidati.
Si tratta di questione molto antica: basti pensare, al proposito, alle pagine del “Gattopardo” e alla famosa frase “che tutto cambi perché nulla cambi”, oppure al tempo del notabilato quando prefetti e cosche indirizzavano il voto verso quello che Salvemini definiva “il Ministero della Malavita”. Pensiamo poi al connubio fascismo/organizzazioni mafiose e nel secondo dopoguerra, dalla presenza degli USA nell’isola siciliana e alle conseguenze che questo fatto ebbe sulla politica locale e nazionale.
Appare dunque perlomeno incauta la dichiarazione del Ministro dell’Interno in questa occasione, tanto più che il sistema elettorale (uninominale da una parte, liste bloccate dall’altra) favorisce il ritorno al notabilato e quindi rende più facile la pressione esterna nel senso del voto di scambio.
Voto di scambio, sarà bene ricordare, che non rientra nei termini del dettato legislativo appena indicato nel caso di “elezioni primarie” interne a partiti e a schieramenti, con il conseguente risultato di un possibile inquinamento “alla fonte” cioè nel momento delle scelte dei candidati (questo, sia chiaro, può avvenire naturalmente sia ai gazebo, sia tramite il web). E’ questo un dato da verificare con grande attenzione nel momento in cui attraverso “parlamentarie” di vari tipo si determinano le posizioni che garantiscono l’elezione nelle liste plurinominali bloccate.
Il collegio uninominale, poi, al contrario di quello che indicherebbe la tradizione nelle democrazie occidentali, esalta la competizione tra i vari candidati al riguardo proprio del “voto di scambio”.
Siamo di fronte ad indici elevati di fragilità del sistema (sempre più corroso dall’esercizio spregiudicato dell’autonomia del politico e dall’elevato astensionismo) e di crescita del già notevole livello di possibilità di inquinamento del voto, laddove abbiamo assistito nel corso degli anni a una diminuzione di peso del voto di appartenenza e a un vero e proprio mescolamento di carte tra voto d’opinione e voto di scambio dovuto alla crescita d’importanza (a livello esponenziale) della personalizzazione della politica.
Proprio per questi motivi, in conclusione, sarebbe comunque preferibile (al di là anche della stessa valutazione al riguardo del tema della rappresentanza politica che pure costituisce questione di grande importanza) una formula elettorale proporzionale, unica formula possibile per sviluppare un tentativo di una qualche rivitalizzazione del sistema politico.
La formula con la quale ci apprestiamo al prossimo voto presenta infatti la tagliola del trasferimento di voto automatico tra uninominale e plurinominale, impedendo così la libera espressione del voto di opinione (oltre alla quota, sicuramente incostituzionale, di voto “non personale” perché attribuito a liste diverse da quella votata).
Una formula elettorale proporzionale (e non mista) risulterebbe anche utile per recuperare il senso di un voto di opinione comunque espresso al di fuori dal peso del voto di scambio (il suffragio per il “simbolo” tanto per intenderci) e magari anche il recupero di qualche quota di voto di appartenenza.
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