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29/11/2017

Facebook diventerà un ministero privato della verità

Il dibattito su privacy e notizie false è scoppiato ormai da più di un anno e ruota tutto intorno a due temi: il primo è quello della privacy, vale a dire se Facebook rispetta gli standard o meno. Il secondo è se Facebook sia solo una piattaforma (Privata, aggiungiamo noi, sempre meglio ricordarlo) o è anche un editore. E se le valutazioni se una notizia sia falsa o meno debba avvenire attraverso algoritmi o con l’intervento umano. A prima vista sembrano solo questioni tecniche, invece sono diventate discussioni fondamentali dal momento che ormai Facebook è parte integrante della sfera privata di ognuno di noi (o quasi) ed è in grado di condizionare campagne elettorali, voti e immaginario di miliardi di persone. Proviamo a capire quali sono i problemi e le possibili soluzioni con l’aiuto del sito Valigiablu.it che ha sempre prodotto analisi e approfondimenti a riguardo. Partiamo tuttavia da una premessa: Facebook è lo strumento ma la sostanza del problema sta nei processi di disinformazione anche dei media classici che devono difendere gli interessi di chi li finanzia e della classe dominante. La breccia che tale disinformazione fa in seno al popolo avviene perché c’è sempre meno investimento nell’istruzione e sempre più distacco fra cittadino e politica. Facebook quindi è la punta di un iceberg che va molto più in profondità ed il problema della disinformazione e delle notizie false non nesce certo con l’azienda di Zuckerberg. Basta solo ricordare la campagna di falsità prodotta, quando ancora Facebook non esisteva, da parte di chi voleva iniziare la disastrosa guerra in Iraq con tanto di Colin Powell che mostrava all’Onu una fiala e delle foto per dimostrare la presenza di armi di distruzione di massa nel paese di Saddam. Quindi le bugie e le fake news sono sempre esistite, adesso è solo cambiato il modo in cui prendono forma e si diffondono. Ed uno dei motivi per cui spesso molti credono a cose impensabili parte soprattutto dalla sfiducia, legittima e comprensibile, che si è creata intorno a media tradizionali e politica. Senza mai scordarsi che solo pochi giorni fa, quotidiani ritenuti autorevoli hanno pubblicato la foto di una modella e la hanno indicata come la sorella del kamikaze di Manchester, diffondendo a loro volta una bufala incredibile.
 
L’imbroglio di Facebook alla UE. Lo scorso 18 maggio il Commissario alla Concorrenza della Commissione europea ha inflitto una multa di 110 milioni di euro (avrebbe potuto portarla fino a 250 milioni) a Facebook per l’acquisizione di WhatsApp.  Nel 2014 Facebook comunicò alla Commissione l’intenzione di acquisire WhatsApp ma dichiarò che non poteva stabilire una corrispondenza automatica tra account Facebook e utenti WhatsApp. Invece nell’agosto 2016, le due aziende annunciarono la possibilità di collegare i numeri di telefono con gli account degli utenti del social network. E’ stato accertato anche che nel 2014 Facebook disse una bugia alla Commissione perché era già in grado al tempo di fare questa operazione. Con l’acquisizione di WhatsApp, di fatto Facebook ha acquistato un elenco telefonico da un miliardo di persone, molti dei quali già iscritti alla propria piattaforma. Con questa mossa Facebook ha ovviato al fatto di non avere il numero di telefono dei propri utenti (vi ricordate che più volte aveva provato a chiederlo ogni volta che ci si collegava?) ed adesso è in grado di abbinare un numero di telefono anche a quei profili falsi o seminascosti alzando moltissimo le proprie capacità di “profilazione dell’utente” per poi venderla a fini pubblicitari, operazione che aveva già fatto nel 2012 con Instagram. C’è però un problema: 110 milioni per Facebook sono niente. Tanto per farsi un’idea, il colosso dei social network ha pagato WhatsApp 19 miliardi e nel 2016 ne ha fatti 6 di fatturato e 2 di utile. Come ha scritto giustamente Valigiablu.it nel proprio articolo si tratta praticamente di una “monetizzazione dei diritti” a costi irrisori.

Chi decide se è una fake news? L’evento che fece scoppiare il dibattito su come controllare e segnalare le fake news fu la bufala, condivisa da migliaia di utenti, del sostegno di Papa Francesco a Trump durante la campagna elettorale americana. Il dibattito però si è incentrato sul fatto che dovesse essere un algoritmo a fare questo lavoro oppure la decisione finale dovesse spettare giocoforza ad un essere umano. Intanto c’è da precisare una cosa. Come avviene spesso la bufala raggiunge molte più persone se ne parlano i media tradizionali che con le condivisioni sui social network. Le fake news sono argomento che attira il lettore quindi, seppur con finalità diverse, viaggiano anche per merito di chi le vuole combattere. Fino ad oggi Facebook ha cercato di limitare il più possibile l’intervento umano per tutelare la presunta neutralità della piattaforma. E come sempre qualunque soluzione crea altri problemi. Ci sono due esempi classici che hanno scaturito polemiche. Il primo è la famosa foto della bambina vietnamita che scappa nuda sotto il napalm lanciato dall’esercito Usa. Secondo l’algoritmo era una foto da censurare perché c’è la presenza di un nudo per di più di una bambina. Ma il valore storico, artistico e politico di quella foto sappiamo tutti qual è. Il secondo esempio è quello della sezione editoriale di Facebook, le “trending news”, cioè le notizie più cliccate. Prima c’era un algoritmo che sceglieva le notizie ma con la testimonianza di ex impiegati di Facebook è stato scoperto che la mano umana determinava quella sezione, accusando l’azienda di favorire alcune notizie a discapito di altre (Zuckerberg ad esempio era schierato con la Clinton e Facebook è stato accusato di favorire le notizie pro-Democratici). Siccome Facebook, come già detto, vuole darsi un’immagine di neutralità, è stato ripristinato il sistema automatizzato. E quindi? Chi decide se una notizia è falsa o meno? Dopo la vittoria di Trump che per molti è stata scioccante e di cui molti danno merito anche alle fake news, Facebook ha deciso di mettere mano al problema e trovare un sistema per segnalarle pubblicamente. E qui nasce un altro problema, forse più grande. Perché per molti ci sarebbe il rischio che Facebook diventi una sorta di ministero (privato) della Verità e vista la diffusione del social network, anche il più potente editore del mondo che decide quali siano le fonti affidabili e quali no (che un giornale sia registrato presso il Tribunale ad esempio non è garanzia che non produca bufale) e quali contenuti lo siano o meno. Certo, Facebook potrebbe assumere qualche migliaia di persone per fare il fact checking (controllo dei fatti) delle notizie condivise da un tot numero di utenti ma il livello discrezionale rimarrebbe alto e per molti sarebbe pericoloso. La domanda quindi è un’altra. Facebook vuole mantenere la sua immagine di attore neutro (anche se non lo è, chiaramente) oppure vuole diventare attore principale nel mondo globale dell’informazione? In base alle strategie del colosso americano la scelta sarà una diretta conseguenza e noi dovremmo tutti rivalutare il nostro rapporto con la piattaforma.

La fiducia perduta. Da qualunque parte si guardi il problema, le soluzioni paiono dei palliativi o misure che vanno a risolvere un problema per crearne altri. Probabilmente la soluzione è molto più vicina a ciò che sta nel cuore dell’informazione: i giornalisti dovrebbero concentrarsi di più sul produrre un buon giornalismo, riconquistando la fiducia dei lettori. Se siamo arrivati a questo punto è perché i giornalisti hanno saccheggiato la verità e svolto il proprio lavoro soprattutto al servizio della propria azienda e di chi la controlla dal punto di vista politico e finanziario.

Concludiamo con una considerazione che Arianna Ciccone fa in un articolo di Valigiablu.it su odio in politica e fake news: “Oggi, i partiti politici non sono più solo le persone che dovrebbero governare nel modo in cui noi vogliamo. Sono una squadra da sostenere, e una tribù di cui sentirsi parte. E la visione politica dei cittadini è sempre più a somma zero: si tratta di aiutare la loro squadra a vincere, e fare in modo che l’altra squadra perda. Questa forma di “tribalismo” spinge le persone a cercare e a credere a notizie che confermano i loro pre-esistenti pregiudizi, al di là se siano vere o meno. E questo è assolutamente trasversale. Non è una esclusiva di una sola parte politica”.
 
Tratto dall’edizione cartacea di Senza Soste n.127 (luglio-agosto 2017)

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