Il dibattito su privacy e notizie false è
scoppiato ormai da più di un anno e ruota tutto intorno a due temi: il
primo è quello della privacy, vale a dire se Facebook rispetta gli
standard o meno. Il secondo è se Facebook sia solo una piattaforma
(Privata, aggiungiamo noi, sempre meglio ricordarlo) o è anche un
editore. E se le valutazioni se una notizia sia falsa o meno debba
avvenire attraverso algoritmi o con l’intervento umano. A prima vista
sembrano solo questioni tecniche, invece sono diventate discussioni
fondamentali dal momento che ormai Facebook è parte integrante della
sfera privata di ognuno di noi (o quasi) ed è in grado di condizionare
campagne elettorali, voti e immaginario di miliardi di persone. Proviamo
a capire quali sono i problemi e le possibili soluzioni con l’aiuto del
sito Valigiablu.it che ha sempre prodotto
analisi e approfondimenti a riguardo. Partiamo tuttavia da una premessa:
Facebook è lo strumento ma la sostanza del problema sta nei processi di
disinformazione anche dei media classici che devono difendere gli
interessi di chi li finanzia e della classe dominante. La breccia che
tale disinformazione fa in seno al popolo avviene perché c’è sempre meno
investimento nell’istruzione e sempre più distacco fra cittadino e
politica. Facebook quindi è la punta di un iceberg che va molto più in
profondità ed il problema della disinformazione e delle notizie false
non nesce certo con l’azienda di Zuckerberg. Basta solo ricordare la
campagna di falsità prodotta, quando ancora Facebook non esisteva, da
parte di chi voleva iniziare la disastrosa guerra in Iraq con tanto di
Colin Powell che mostrava all’Onu una fiala e delle foto per dimostrare
la presenza di armi di distruzione di massa nel paese di Saddam. Quindi
le bugie e le fake news sono sempre esistite, adesso è solo
cambiato il modo in cui prendono forma e si diffondono. Ed uno dei
motivi per cui spesso molti credono a cose impensabili parte soprattutto
dalla sfiducia, legittima e comprensibile, che si è creata intorno a
media tradizionali e politica. Senza mai scordarsi che solo pochi giorni
fa, quotidiani ritenuti autorevoli hanno pubblicato la foto di una
modella e la hanno indicata come la sorella del kamikaze di Manchester,
diffondendo a loro volta una bufala incredibile.
L’imbroglio di Facebook alla UE. Lo
scorso 18 maggio il Commissario alla Concorrenza della Commissione
europea ha inflitto una multa di 110 milioni di euro (avrebbe potuto
portarla fino a 250 milioni) a Facebook per l’acquisizione di WhatsApp.
Nel 2014 Facebook comunicò alla Commissione l’intenzione di acquisire
WhatsApp ma dichiarò che non poteva stabilire una corrispondenza
automatica tra account Facebook e utenti WhatsApp. Invece nell’agosto
2016, le due aziende annunciarono la possibilità di collegare i numeri
di telefono con gli account degli utenti del social network. E’ stato
accertato anche che nel 2014 Facebook disse una bugia alla Commissione
perché era già in grado al tempo di fare questa operazione. Con
l’acquisizione di WhatsApp, di fatto Facebook ha acquistato un elenco
telefonico da un miliardo di persone, molti dei quali già iscritti alla
propria piattaforma. Con questa mossa Facebook ha ovviato al fatto di
non avere il numero di telefono dei propri utenti (vi ricordate che più
volte aveva provato a chiederlo ogni volta che ci si collegava?) ed
adesso è in grado di abbinare un numero di telefono anche a quei profili
falsi o seminascosti alzando moltissimo le proprie capacità di “profilazione dell’utente”
per poi venderla a fini pubblicitari, operazione che aveva già fatto
nel 2012 con Instagram. C’è però un problema: 110 milioni per Facebook
sono niente. Tanto per farsi un’idea, il colosso dei social network ha
pagato WhatsApp 19 miliardi e nel 2016 ne ha fatti 6 di fatturato e 2
di utile. Come ha scritto giustamente Valigiablu.it nel proprio articolo si tratta praticamente di una “monetizzazione dei diritti” a costi irrisori.
Chi decide se è una fake news? L’evento che fece scoppiare il dibattito su come controllare e segnalare le fake news
fu la bufala, condivisa da migliaia di utenti, del sostegno di Papa
Francesco a Trump durante la campagna elettorale americana. Il dibattito
però si è incentrato sul fatto che dovesse essere un algoritmo a fare
questo lavoro oppure la decisione finale dovesse spettare giocoforza ad
un essere umano. Intanto c’è da precisare una cosa. Come avviene spesso
la bufala raggiunge molte più persone se ne parlano i media tradizionali
che con le condivisioni sui social network. Le fake news sono
argomento che attira il lettore quindi, seppur con finalità diverse,
viaggiano anche per merito di chi le vuole combattere. Fino ad oggi
Facebook ha cercato di limitare il più possibile l’intervento umano per
tutelare la presunta neutralità della piattaforma. E come sempre
qualunque soluzione crea altri problemi. Ci sono due esempi classici che
hanno scaturito polemiche. Il primo è la famosa foto della bambina
vietnamita che scappa nuda sotto il napalm lanciato dall’esercito Usa.
Secondo l’algoritmo era una foto da censurare perché c’è la presenza di
un nudo per di più di una bambina. Ma il valore storico, artistico e
politico di quella foto sappiamo tutti qual è. Il secondo esempio è
quello della sezione editoriale di Facebook, le “trending news”, cioè le
notizie più cliccate. Prima c’era un algoritmo che sceglieva le notizie
ma con la testimonianza di ex impiegati di Facebook è stato scoperto
che la mano umana determinava quella sezione, accusando l’azienda di
favorire alcune notizie a discapito di altre (Zuckerberg ad esempio era
schierato con la Clinton e Facebook è stato accusato di favorire le
notizie pro-Democratici). Siccome Facebook, come già detto, vuole darsi
un’immagine di neutralità, è stato ripristinato il sistema
automatizzato. E quindi? Chi decide se una notizia è falsa o meno? Dopo
la vittoria di Trump che per molti è stata scioccante e di cui molti
danno merito anche alle fake news, Facebook ha deciso di
mettere mano al problema e trovare un sistema per segnalarle
pubblicamente. E qui nasce un altro problema, forse più grande. Perché
per molti ci sarebbe il rischio che Facebook diventi una sorta di
ministero (privato) della Verità e vista la diffusione del social
network, anche il più potente editore del mondo che decide quali siano
le fonti affidabili e quali no (che un giornale sia registrato presso
il Tribunale ad esempio non è garanzia che non produca bufale) e quali
contenuti lo siano o meno. Certo, Facebook potrebbe assumere qualche
migliaia di persone per fare il fact checking (controllo dei fatti)
delle notizie condivise da un tot numero di utenti ma il livello
discrezionale rimarrebbe alto e per molti sarebbe pericoloso. La domanda
quindi è un’altra. Facebook vuole mantenere la sua immagine di attore
neutro (anche se non lo è, chiaramente) oppure vuole diventare attore
principale nel mondo globale dell’informazione? In base alle strategie
del colosso americano la scelta sarà una diretta conseguenza e noi
dovremmo tutti rivalutare il nostro rapporto con la piattaforma.
La fiducia perduta. Da
qualunque parte si guardi il problema, le soluzioni paiono dei
palliativi o misure che vanno a risolvere un problema per crearne altri.
Probabilmente la soluzione è molto più vicina a ciò che sta nel cuore
dell’informazione: i giornalisti dovrebbero concentrarsi di più sul
produrre un buon giornalismo, riconquistando la fiducia dei lettori. Se
siamo arrivati a questo punto è perché i giornalisti hanno saccheggiato
la verità e svolto il proprio lavoro soprattutto al servizio della
propria azienda e di chi la controlla dal punto di vista politico e
finanziario.
Concludiamo con una considerazione che Arianna Ciccone fa in un articolo di Valigiablu.it su odio in politica e fake news: “Oggi,
i partiti politici non sono più solo le persone che dovrebbero
governare nel modo in cui noi vogliamo. Sono una squadra da sostenere, e
una tribù di cui sentirsi parte. E la visione politica dei cittadini è
sempre più a somma zero: si tratta di aiutare la loro squadra a vincere,
e fare in modo che l’altra squadra perda. Questa forma di “tribalismo”
spinge le persone a cercare e a credere a notizie che confermano i loro
pre-esistenti pregiudizi, al di là se siano vere o meno. E questo è
assolutamente trasversale. Non è una esclusiva di una sola parte
politica”.
Tratto dall’edizione cartacea di Senza Soste n.127 (luglio-agosto 2017)
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