di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Di nuovo l’Egitto, di
nuovo un luogo di preghiera. Stavolta nel mirino jihadista non sono
finiti i copti, come a Natale e a Pasqua, ma la comunità musulmana sufi,
considerata apostata dal radicalismo islamista. Un attacco devastante e
ben pianificato: sono 235 i morti e 130 i feriti nell’attentato
compiuto ieri durante la preghiera del venerdì nella moschea Al-Rawdah
del villaggio di Bir al-Abd, a 30 km dal capoluogo della Penisola del
Sinai, Arish.
Le prime immagini mostrano corpi senza vita, distesi sui tappeti insanguinati della moschea, coperti con lenzuola bianche. Un
commando è entrato mentre i fedeli pregavano e ha sparato sulla folla
mentre un kamikaze saltava in aria. La gente è scappata, ma fuori a
bloccare le vie di fuga c’erano altri uomini armati che hanno
letteralmente chiuso le strade dando fuoco alle auto parcheggiate. Un’operazione ben organizzata che dimostra il livello di militarizzazione raggiunto dalle milizie islamiste in Sinai.
Secondo fonti dell’intelligence del nord del Sinai, il commando è
arrivato a bordo di cinque 4×4 e ha lavorato in anticipo, nascondendo
esplosivi intorno alla moschea. Non sono fuggiti subito: «Alcune
ambulanze sono state attaccate», aggiungono. «Le forze speciali stanno
cercando i terroristi». Chiusa la strada tra Arish e Rafah, estremo oriente egiziano. Sky News Arabic fa sapere che due droni hanno distrutto due dei veicoli in fuga, uccidendo 15 miliziani.
Il presidente al-Sisi ha convocato una riunione d’emergenza e
dichiarato tre giorni di lutto nazionale. Ha poi parlato alla nazione
promettendo vendetta e l’uso della «forza bruta contro queste cellule». E
mentre giungevano le condoglianze dei governi di tutto il mondo, al-Sisi
riprendeva la narrativa della guerra al terrore, primaria ragione di
immunità per i crimini del regime da parte della comunità
internazionale: l’Egitto, ha detto, affronta le reti terroriste da solo a
favore di tutta la regione e della sua stabilità. «Questi attacchi sono il riflesso degli sforzi nella lotta al terrorismo».
Per ora non ci sono rivendicazioni ma i sospetti cadono sulle
formazioni jihadiste attive da anni in Sinai. Tra queste i «Soldati del
Califfato», milizia fedele allo Stato islamico e autrice dei più
sanguinosi attacchi contro i civili (nel dicembre 2016 gli attentati
contro due chiese al Cairo e a marzo scorso quelli contro due chiese a
Tanta e Alessandria, durante le messe della domenica delle palme); la
«Provincia del Sinai», ex Ansar Beit al-Maqdes, anch’essa parte
integrante della rete del «califfo»; Murabitun, legata ad Al Qaeda; e
Hasm, formazione comparsa un anno e mezzo fa e di più difficile
attribuzione ideologica (responsabile dell’attacco del 20 ottobre contro
le forze speciali impegnate in un’operazione contro il gruppo).
La presenza dei gruppi jihadisti si radica e non arretra
nonostante la campagna anti-terrorismo in atto ormai da tre anni e
inaugurata dal presidente al-Sisi subito dopo il golpe del luglio 2013. Da
allora il Sinai è in stato di emergenza – misura allargata a tutto il
paese a marzo – ma gli attacchi non cessano. Come non viene meno la
capacità dei jihadisti di controllare zone desertiche e comunità urbane –
dove in alcuni casi sono in grado di imporre checkpoint e regole di
vita quotidiana – e di muovere cellule in tutto il Sinai, spingendole
fino alle città della costa occidentale. È del 9 novembre un
nuovo «salto di qualità», l’attacco alla fabbrica di cemento Arish
Cement di proprietà dell’esercito, che ha ucciso nove lavoratori e
costretto le forze armate a introdurre nuove misure di sicurezza per
impedire ulteriori interruzioni della produzione.
Nel mirino c’è l’esercito, ma anche e soprattutto i civili e le
minoranze religiose, dai copti ai sufi fino ai beduini accusati di
cooperare con con le forze armate. I mesi appena trascorsi hanno visto la fuga di
massa delle famiglie copte del Sinai, riparate ad Alessandria,
Ismailiya, Assiout, Il Cairo in cerca di una protezione che il governo
centrale non sa garantire nonostante le promesse di al-Sisi.
E’ qui, in Sinai che la popolazione denuncia le politiche del Cairo e il fallimento della guerra al terrore: c’è
poco al di là della propaganda, degli annunci che arrivano con cadenza
regolare su arresti e uccisioni di terroristi. C’è invece una morsa
securitaria che si stringe intorno alle comunità, già di per sé
marginalizzate dall’assenza di investimenti, e che subiscono quotidianamente coprifuoco, arresti indiscriminati, restrizioni al movimento.
Durante la visita di papa Francesco in Egitto, poche settimane dopo
gli attacchi della domenica delle palme e le nuove misure di sicurezza
introdotte dal governo che dispiegò l’esercito in tutti i luoghi
considerati sensibili, un attivista egiziano – in condizione di
anonimato – riassunse al manifesto la realtà dei fatti: «Il
governo teme attacchi dell’Isis e vuole mostrare di avere la situazione
sotto controllo. Non è così: se in Sinai l’esercito ha inflitto gravi
perdite allo Stato Islamico, ha anche generato altro estremismo perché
opprime la popolazione, la danneggia, ne abusa».
AGGIORNAMENTO ore 12 – SALE A 305 IL BILANCIO DELLE VITTIME
Sono 305 le vittime accertate dell’attacco di ieri contro una moschea
sufi in Sinai. Di questi 27 sono bambini. Almeno 128 i feriti. Secondo al
procura generale, i miliziani coinvolti erano 20-25, di cui 15 uccisi
dal bombardamento di due droni.
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