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27/11/2017

Grande è la confusione sotto il cielo

Ho sempre sospettato che la trasmissione Report sia stata tra le cause più decisive della mia emigrazione in Austria, quando ancora amavo viaggiare. E che continui ad esserlo per tanti giovani. Perché è irresistibile: dopo pochi minuti di Report devi odiare l'Italia. E il bello è che non sai neanche perché. Tra inquadrature sghembe, interviste mezze rubate, primi piani di citofoni e porte vetrate, telecamere che riprendono altre telecamere e riferimenti di cronaca buttati nel montaggio in ordine rigorosamente random, ciò che resta nel telespettatore dopo i titoli di coda non è la trama di un malaffare ma un magma di impulsi dove attechisce una sola certezza: di essere stati usati, turlupinati, spolpati. Resta l'eco delle migliaia e milioni di euro che si intuiscono sottratti al proprio bisogno. E una rabbia tanto più forte perché sfocata, generalmente indirizzata a maneggi così immondi da sfuggire alla schietta intelligenza degli onesti.

Perché Report è purtroppo anche un esercizio di stile. Pur restando uno dei pochi tentativi seri e ben finanziati di giornalismo d'inchiesta in Italia, i suoi spunti e materiali anche preziosi, anche coraggiosi, annegano in una tecnica «shock and awe» che indigna e disorienta prima di informare. Oltre a ciò, non sembra intravedersi una chiara linea editoriale. Il prodotto richiama politicamente il grillismo delle origini e la collegata retorica dell'onestà già analizzata in questo blog, dove i colpi spesso ben assestati al privilegio, alla prevaricazione e alla furberia dei potenti mancano puntualmente di gettar luce sulle possibili cause sistemiche di quei fenomeni. In Report il sistema delle regole e degli obiettivi politici è anzi raramente il problema: alla peggio è perfettibile, ma i suoi fallimenti sono tutti da addebitare all'indegnità di chi vi si deve attenere. Sicché la ricerca di senso dello spettatore non può che incanalarsi nell'autocondanna di un popolo incapace di avverare le opportunità di modelli politici ed economici altrimenti votati al successo. Un'autocondanna che in Report si fa sovente anche esplicita divagando sui modelli virtuosi de «gli altri paesi» dove invece, a presunta parità di premesse, «le cose funzionano».

Ho smesso di guardare Report - e la televisione in genere - anni fa, ma ne ricevo regolarmente le newsletter. L'ultima è relativa alla puntata che andrà in onda lunedì 27 novembre sul tema dell'integrazione europea, il cui intento non velatamente propagandistico è già stato ben denunciato da Marcello Foa. Quel breve comunicato email con il riassunto dei servizi merita una lettura analitica per misurare lo stato del dibattito europeista anche tra i giornalisti accreditati come indipendenti. Ciò che in esso colpisce non è tanto la persistenza di posizioni e formule ormai irripetibili persino tra le frange più accorte del mainstream, ma la grave incoerenza interna delle tesi esposte o implicate. Da quelle contraddizioni emerge lampante l'impasse di chi ha investito aspettative e carriere nel progetto paneuropeo e ne è quindi oggi prigioniero, incapace di districarsene e condannato ad accettarne l'illogicità affinché la logica non ne faccia strame.

(clicca sull'immagine per aumentare le dimensioni)
In sintesi:
  • la classe dirigente tedesca impone l'austerità brutta, non rispetta le regole, disunisce il continente, sfrutta i suoi lavoratori e tratta i paesi del Sud come già in tempi innominabili («l'occupazione tedesca»);
  • anzi no, l'austerità è bella e necessaria, ma noi ci ostiniamo a spendere soldi pubblici;
  • l'Unione Europea è più indisciplinata e maneggiona di noi.
Quindi? Quindi bisogna farsi governare dall'Unione Europea (sì, quell'Unione) dove «vince la linea» della Germania (sì, quella Germania) per risolvere i nostri problemi.

È grande la confusione sotto il cielo. Speriamo porti bene.

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