“Il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe e la sua famiglia sono stati arrestati e sono al sicuro”. E’ quanto si legge sull’account Twitter del partito di governo, lo Zanu-Pf, in cui viene ribadito che “nello Zimbabwe non è in atto un golpe”. “Nè lo Zimbabwe nè lo Zanu sono di proprietà di Mugabe e di sua moglie – si legge ancora su Twitter – oggi inizia una nuova era e il compagno Mnangagwa ci aiuterà ad avere un migliore Zimbabwe”. Il vicepresidente Emmerson Mnangagwa, era stato rimosso la scorsa settimana dal suo incarico, secondo la breve nota diffusa “sarà il presidente dello Zanu-Pp come da costituzione della nostra organizzazione rivoluzionaria”. In un clima già teso da molto tempo, la scorsa settimana Mugabe aveva defenestrato il vicepresidente Emmerson Mnangagwa. Non era certo un oppositore, ma un fedelissimo che ha trascorso quasi 50 anni a fianco dell’anziano leader, ormai 93enne, e che veniva indicato come il suo naturale successore. “Una fase di transizione guidata dall’esercito spianerà ora la strada a un’elezione libera, corretta e democratica” ha fatto sapere Mnangagwa. L’agenzia Reuters riferisce che i soldati, con veicoli blindati, hanno bloccato le strade che portano ai principali uffici del governo, al Parlamento e ai tribunali nel centro della capitale Harare.
Il presidente Robert Mugabe è agli arresti domiciliari in Zimbabwe ha fatto sapere il presidente sudafricano Jacob Zuma. “Il presidente Zuma ha parlato con il presidente Robert Mugabe poco fa e gli ha detto che è agli arresti domiciliari ma che stava bene”, ha riferito il governo sudafricano in un comunicato. Nello stesso comunicato viene annunciato anche l’invio del ministro della Difesa Nosiviwe Mapisa-Nqakula (invece del ministro degli Esteri, ndr) per incontrare sia Mugabe che le forze armate del Paese confinante.
Mugabe è il leader nero africano che nel 1980 ha portato all’indipendenza l’ex Rhodesia (ex colonia britannica ancora più razzista del Sudafrica) – ridenominandola come Zimbabwe, affrancandola dal giogo coloniale e dall’apartheid.
Nel 2005 il Parlamento dello Zimbabwe aveva approvato una riforma costituzionale, voluta dal presidente Robert Mugabe, che autorizzava la nazionalizzazione delle fattorie sequestrate ai possidenti bianchi (eredi dei vecchi colonizzatori) e vietava i viaggi all’estero per le persone sospettate di pregiudicare gli interessi nazionali. Prima della campagna di espropri forzosi 4.500 membri della Commercial farmers’ Union, in prevalenza bianchi, e 1.500 altri agricoltori bianchi non affiliati, possedevano quasi 15 milioni di ettari delle terre migliori del paese. Dieci anni dopo, ne rimangono meno di 400.
Ma il paese in cui il 75% della popolazione è dedito all’agricoltura ne ha beneficiato minimamente. L’emendamento costituzionale era stato adottato con 103 voti contro 29, ma era costato allo Zimbabwe l’embargo da parte dei paesi occidentali richiesto forsennatamente dalla Gran Bretagna di Blair contro la ex colonia. Da allora il paese, già in serie difficoltà dal 1998, era sprofondato in una crisi economica pesantissima.
Dopo 37 anni ininterrottamente al potere e a 93 anni di età, potrebbe ormai uscire di scena Robert Mugabe, un leader anticolonialista africano rimasti imbrigliato, come tanti altri, dentro una trama di interessi personali e di potere che non poteva che travolgerlo.
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