Gli ultimi due giorni li abbiamo vissuti fianco a fianco con i compagni migranti del centro di Cona in lotta per il loro diritto a vivere. Durante la giornata di martedì sono partiti in marcia per chiedere che quel campo infernale venga chiuso, e con lui tutti quegli spazi adibiti all’accoglienza delle persone migranti ma che in realtà sono topaie prive delle condizioni minime di decenza e salubrità, gestite da cooperative utilizzate come bancomat da chi, all’altro capo del rapporto di accoglienza, sfrutta l’esternalizzazione del comparto per fare soldi facili.
Appena abbiamo saputo dell’inizio della marcia in direzione di Venezia siamo subito partiti per raggiungerli e andare a dare supporto alla lotta messa in atto da loro assieme all’Unione Sindacale di Base, mentre altri compagni sono arrivati nelle ore successive dandosi il cambio per sostenere la marcia e portare viveri e beni necessari.
È stata una scelta improvvisa quella delle persone migranti di stanza a Conetta, ma non certamente inaspettata. La loro lotta infatti prosegue senza tregua da quando in quei freddi tendoni, lo scorso gennaio, perse la vita Sandrine Bakayoko.
Come dicevano gli stessi migranti, la morte di Sandrine non è diversa da quella di Abd Elsalam, ucciso durante un picchetto alla GLS di Piacenza, così come non è diversa dalla morte di Salif Traoré, investito ieri sera da un auto mentre cercava di raggiungere i suoi compagni: sono morti del sistema dello sfruttamento e della negazione dei diritti.
Le condizioni disumane in cui viveva Sandrine l’avevano debilitata fino ad ammalarsi, ma non ricevette le cure necessarie e il suo compagno ne trovò il cadavere sotto la doccia. Da allora la lotta, come è naturale, ha vissuto diverse fasi, ma importanti risultati sono stati conseguiti, come l’esclusione di donne e bambini da quel campo invivibile. Risultati possibili grazie al grande spirito combattivo dimostrato dai ragazzi del centro, e alla loro generosità nel mettersi a disposizione per la costruzione di organizzazione collettiva tramite le strutture dell’USB.
La #marciaperladignità è scaturita in questo contesto di lotte e sedimentazione di forze, e solo così ha potuto ottenere un primo importante risultato. Dopo lunghe trattative con il prefetto di Venezia, costretto a presentarsi per due giorni consecutivi alle tappe della marcia e a confrontarsi direttamente con i migranti e i loro rappresentanti, è stata ottenuta la conferma che per le prossime notti si disporrà di un tetto sopra la testa pur senza dover tornare a Cona, alloggiando in strutture messe a disposizione dal patriarca della diocesi di Venezia. Una cosa infatti è certa: nessuno dei migranti in lotta, le cui fila si sono ingrossate ora dopo ora, è disposto a retrocedere di un millimetro e a dover rivedere le fatiscenti camere del campo che martedì hanno deciso di abbandonare dopo aver raccolto i loro ben pochi averi.
La qualità organizzativa messa in campo, messa alla prova dalla velocità degli avvenimenti, è stata la fonte indispensabile da cui è scaturito l’importante risultato politico di questa sera. Ma anche la capacità di creare un ponte con le altre lotte, superando le divisioni che ci vengono imposte tra stranieri e lavoratori italiani, e di sapere puntare a obiettivi politici alti, individuando coscientemente le vere cause della catena dello sfruttamento.
I compagni migranti riconoscono ovviamente le responsabilità del razzismo, anche, ma non accusano i cittadini italiani, bensì il governo e le istituzioni di alimentare l’odio verso di loro. È una qualità nella produzione di discorso politico che ultimamente sempre più spesso vediamo anche nelle lotte coi facchini della logistica così come nei campi di pomodori del mezzogiorno, unita alla capacità di articolare le vertenze a tutto tondo e di saper chiamare alle loro responsabilità diversi soggetti padronali e istituzionali, riconoscibile anche durante le battaglie per il mondo dell’abitare, dalla resistenza agli sfratti alla difesa delle occupazioni.
Che le nuove figure del mondo del lavoro e del non lavoro sappiano intrecciarsi tra loro e comporre la spina dorsale del nostro blocco sociale è un’urgenza a cui nessuno può sottrarsi, e di cui nelle giornate del 10 e 11 novembre (sciopero generale e manifestazione di Eurostop) abbiamo visto l’ennesima buona rappresentazione, necessaria per dare forza e auto-riconoscibilità alle persone in lotta.
La componente immigrata, spesso scappata da guerre esportate dai governi europei nella definizione dei comuni interessi dentro l’UE, è certamente tra quelle che maggiormente si sta mettendo a disposizione delle lotte di oggi, e che già più volte ha versato il suo sangue, senza scordare per ultima proprio la morte di Salif Traore.
Con le statistiche che ci parlano dei giovani autoctoni costretti all’emigrazione perché in patria sono costretti alla precarietà più brutale, quando non alla disoccupazione o al lavoro gratuito, istituzionalizzato con normative medievali come quella sull’Alternanza scuola-lavoro, non possiamo non renderci conto che un obiettivo politico centrale oggi è quello di unire le due gambe di questo meccanismo di import/export dello sfruttamento umano, baricentro della costruzione dei nuovi e più terribili contorni dello sfruttamento capitalistico governate dall’Unione Europea.
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