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21/11/2017

Germania malata, Unione Europea con la febbre

L’acqua sale da tempo, ora è arrivata a lambire il soffitto. Solo ora, come spesso accade, ci si accorge che la situazione è diventata ingestibile. L’”instabilità politica”, maledizione che colpiva ad anni alterni molti paesi del Vecchio Continente, aveva fin qui evitato di metter piede a Berlino.

Le ragioni erano molte: potenza economica pressoché intatta nonostante la crisi (che anzi è stata sfruttata per metter fuori gioco numerosi concorrenti europei); establishment politico da sempre al guinzaglio delle grandi imprese (a prescindere dall’ideologia professata ufficialmente); classe operaia e ceti popolari con redditi, diritti e condizioni di lavoro decisamente migliori rispetto a tutti i paesi vicini; forte senso di superiorità a fronte non solo delle “cicale mediterranee” o delle semicolonie dell’Est europeo, ma anche dei partner teoricamente “alla pari”, come Francia e Gran Bretagna.

Ma anche all’interno della potente Germania la distruzione programmata del “modello sociale europeo” stava scavando gallerie tanto ramificate da dissestare le basi su cui aveva retto fin qui il consenso all’establishment politico. Le “riforme Hartz” del lavoro hanno disegnato un modello (in buona parte copiato dal “pacchetto Treu” e dalla “legge 30” italiane, con in più un tocco di workfare rigidamente teutonico) molto lodato da multinazionali, organismi sovranazionali e istituzioni finanziarie. Ma hanno cominciato a minare nei lavoratori tedeschi la certezza di far parte integrante di una élite continentale. Vero è che questa sensazione era forte più ad Ovest che non nei land dell’ex Ddr, ma la condizione ottimale dell’”operaio Volkswagen” era comunque un punto d’arrivo appetibile per chi stava scalando la china sociale a forza di braccia.

Precarietà interna e salari da fame per i mini job sono stati ben presto affiancati da altri due fenomeni che hanno definitivamente frantumato ogni “sogno tedesco”: flussi migratori in improvviso aumento e veloce ristrutturazione produttiva con introduzione massiccia dell’automazione. Anche i media mainstream più succubi del “modello tedesco” e del capitalismo senza alternative (come Repubblica, per capirci) sono costretti ora ad ammettere che “robotizzazione e digitalizzazione stanno spazzando via molti più posti di lavoro di quanto non ne creino. Nell’ultima settimana, due colossi come Deutsche Bank e Siemens hanno annunciato migliaia di esuberi nonostante un’economia tedesca che è tornata a rombare al ritmo del 2% e che proprio secondo i “cinque saggi” rischia di surriscaldarsi. Il binomio crescita uguale occupazione sembra si stia spezzando.”

Di “lavoro buono e ben pagato” ce n’è insomma sempre meno, come in tutti gli altri paesi d’Europa. E anche in quei pochi comparti che ancora non sono stati investiti dallo tsunami si affacciano “esigenze delle imprese” che distruggeranno in breve tempo altre consolidate certezze dei lavoratori dipendenti tedeschi. Ancora da Repubblica:

“Feierabend è un termine intraducibile quanto sacro. È letteralmente “la festa della sera”, sono le ore dedicate dopo il lavoro alla famiglia, agli amici, al divertimento, al riposo. E una volta, chi viveva in Germania sapeva che dopo le cinque del pomeriggio era difficilissimo trovare qualcuno in ufficio, dopo le otto ore canoniche di lavoro i tedeschi spegnevano tutto e andavano a casa. Il tempo libero era sacro. Tanto che da alcuni anni grandi aziende come Daimler avevano persino introdotto il divieto di leggere mail nel fine settimana”.

A noi “europei normali” viene da sorridere. Vivevamo così un quarto di secolo fa, prima degli accordi di Maastricht... Ora anche ai tedeschi tocca sentirsi dire che “ormai l’idea che la giornata lavorativa inizi la mattina in ufficio e si concluda con l’abbandono pomeridiano dell’azienda, è obsoleta”. Nell’epoca digitale alcune tutele dei lavoratori sono troppo rigide: “le aziende hanno bisogno della certezza che non infrangono la legge se un impiegato partecipa di sera a una conferenza telefonica e se a colazione legge le mail”.

Sottolineiamo l’insistenza sulle mail perché indicativa delle figure sociali cui si va a distruggere il “sacro recinto” del tempo libero: non gli operai in tuta blu (già piegati dai turni sulle 24 ore), ma gli impiegati, i funzionari di medio e basso livello, gli storici “cocchi del padrone” (quelli che qui si prestarono a far da clava antioperaia con la “marcia dei 40.000”).

Questo sommario elenco di mutamenti contrattuali che si traducono in cambiamenti violenti degli stili di vita, delle aspettative e dei format antropologico-culturali di un paese (nel resto del Continente era già avvenuto), è il fondamento dell’attuale instabilità politica tedesca, della crescita dei fasciorazzisti, del crollo dei partiti di governo (Cdu-Csu e Spd), della sfiducia generale verso l’establishment. E persino di qualche sciopero in più...

Anche a Berlino, per la prima volta nel dopoguerra, non si riesce a fare un governo e un presidente della Repubblica – il “socialdemocratico” Steinmeier – è costretto a ricordare ai leader politici che “Chi si candida a un ruolo di responsabilità politica non può tirarsi indietro quando lo ottiene”, a convocare “consultazioni” per schiodare i riottosi, per evitare nuove elezioni a brevissimo termine (entro Pasqua).

Il simbolo della stabilità germanica era Angela Merkel, da dodici anni cancelliera stimata, rispettata, considerata unica vera “statista” in un parterre di politici-usa-e-getta. Solo ora ci si può ricordare che il sostrato vero della sua popolarità era costituito dal suo presentarsi come una “brava massaia”, che sapeva gestire la casa senza dar troppo peso a figli o ospiti un po’ disordinati. Ma gestire significa subire e accompagnare i processi, non governarli. E il processo che Angela Merkel ha gestito è stata esattamente la distruzione del “modello sociale europeo”, quell’insieme di economia mista (capitalismo privato e di Stato), welfare, salari decenti, quasi piena occupazione, diritti sul lavoro e fuori, ecc, che ha fatto da cemento nella costruzione del consenso sociale a un sistema.

Sembrava l’uovo di Colombo: “distruggiamo quel modello, dirottando risorse collettive a favore del profitto e delle grandi imprese multinazionali, grazie a un sistema di trattati europei che costringono ogni Stato a uniformarsi progressivamente in questa direzione”. L’hanno fatto e stanno continuando a farlo da 25 anni, senza un attimo di tregua e con strumenti coercitivi sempre più stringenti.

Non avevano calcolato “soltanto” un particolare: il consenso sociale. Si fondava su quel modello, ora scompare insieme a lui. Ma senza consenso non ci può essere stabilità. E non solo nelle democrazie parlamentari...

Finché il dissesto sociale ha riguardato i paesi “periferici”, ci si è limitati a stigmatizzare i “populismi” che mettevano radici su quelle macerie. Ora questo processo è entrato al Reichstag. E si scopre che l’instabilità non è una “colpa” altrui, ma una condizione generale.

Berlino vacilla, dunque Bruxelles trema. Il disordine si riaffaccia sotto il cielo...

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