Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre è stato contrassegnato in Italia da centinaia di iniziative: alcune, fortunatamente poche, di rituale commemorazione, altre, la maggioranza, di impegno proiettato sui compiti odierni dei comunisti.
L’occasione è servita anche, come c’era da aspettarsi, a qualche portafoglio pseudointellettuale televisivo e al becero “giornalismo” parafascista, per rimasticare le “ricostruzioni storiche” cucinate a suo tempo da MI5 (Robert Conquest) e CIA (Adam Ulam), come pure per ridar fiato alle giaculatorie sulle “vittime innocenti del regime staliniano”, tutte rigorosamente martiri della fede democratica.
In Russia il centenario è servito anche per allargare il sermone sulla necessità di ricucire lo strappo sociale provocato nell’ottobre 1917 dal “colpo di stato bolscevico” contro il governo provvisorio e dalla pugnalata a tradimento inferta nel febbraio precedente dai circoli liberali legati al capitale anglo-francese contro il “prospero impero zarista”.
Un impero che si stava sviluppando economicamente – è stato raccontato in decine di documentari – al pari e forse più dei maggiori stati europei e che è stato liquidato da pochi avventuristi antinazionali, estranei ai sentimenti di concordia sociale. Uno sviluppo, si evita però di dire, in cui gli investimenti russi costituivano appena il 28%, contro il 72% di capitali inglesi, francesi, americani, belgi, tedeschi, svedesi, tanto nei bacini minerari e nei complessi metallurgici del Donbass, come nei pozzi petroliferi del Caucaso.
Il sociologo Igor Čubajs, su Radio Komsomolskaja Pravda, si è detto convinto che se non ci fosse stata la rivoluzione, oggi “l’America ci invidierebbe”. Tra le altre farneticazioni, egli rimpiange 5,5 milioni di kmq di territorio che, a suo dire, la Russia avrebbe perso in 70 anni di potere sovietico; rimpiange Costantinopoli e parte della Turchia, che l’impero zarista avrebbe potuto ottenere con la prima guerra mondiale; rimpiange la perdita di Polonia, Finlandia, Ucraina ed è convinto che, in base ai calcoli algebrici di Mendeleev, in Russia avrebbero potuto vivere oggi almeno 600 milioni di persone, governate saggiamente da un discendente di Nikolaj II.
Il comune denominatore delle attuali rivisitazioni del 1917 è costituito dalla congiura straniera ordita contro la società russa: sia a febbraio che in ottobre. Secondo la chiesa ortodossa, l’ideologia comunista fu introdotta in Russia dall’esterno e dunque non si devono definire “rivoluzione russa” gli avvenimenti del 1917, altrimenti tutte le colpe ricadono sulla società russa e questa, “vittima principale di quegli avvenimenti, viene trasformata in colpevole”. Le questioni oggi sul tappeto, sostengono i popy, sono “un’identità comune, un’ideologia condivisa e se a ciò verrà data una risposta corretta, si potrà impedire la destabilizzazione della società”.
E’ così che Vladimir Putin, alla vigilia della festa dell’Unità nazionale (che dal 2005 si celebra il 4 novembre, a ricordo dell’insurrezione del 1612) aveva detto di sperare che tale festa venga “percepita dalla nostra società come linea di confine con i drammatici eventi che avevano diviso il paese e il popolo, che essa diverrà il simbolo del superamento di quella divisione, il simbolo del reciproco perdono”. E’ quindi per il “reciproco perdono”, che si inaugurano sempre nuove targhe e busti agli “eroi” zaristi (prima all’ammiraglio Kolčak, poi al barone Mannerheim, ora agli interventisti stranieri) della guerra civile scatenata nel maggio del 1918 con la rivolta in Siberia dei cecoslovacchi bianchi assoldati dalla Francia.
E se il 4 novembre 1612 rappresenta effettivamente una tappa fondamentale nella storia russa, con la liberazione di Mosca dal giogo polacco e svedese, è però l’ordinanza con cui nel dicembre 2004 fu istituita tale festa, a mettere la parola fine alla “ferita aperta dai bolscevichi nella società russa”, allorché recita che “i combattenti delle milizie popolari condotti da Kozma Minin e Dmitrij Požarskij” liberarono Mosca “mostrando un esempio di eroismo e compattezza di tutto il popolo, indipendentemente da origini, credenze religiose e posizione sociale”. Con il che, la storia russa può rimettersi in moto sotto il segno della concordia nazionale.
E’ così che nei talk show, quando non si può fare proprio a meno di trattare l’Ottobre quantomeno come spartiacque storico, non se ne parla più come della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, ma come proseguimento della rivoluzione borghese di febbraio e si ripete che “occorre il perdono, la fine della divisione della società”.
E’ su questa linea che i reparti di marinai che nel serial televisivo “Trotskij” respingono il tentativo di golpe korniloviano somigliano a gruppi di moderni black bloc sfasciavetrine, mentre le pose vanagloriose di Trotskij sono contrapposte a uno Stalin, perfetto picciotto corleonese della più becera commedia italiana, che agisce nell’ombra, tramando alle spalle di un ingenuo Lev Davidovič. D’altronde, aveva già iniziato Margarita Simonjan, direttrice della “corazzata propagandistica” russa – quella RT accolta come bibbia anche da molta italica sinistra – con il dire come “nel mio organismo si sia formata una resistente allergia a giustificare Stalin”.
Evgenij Konjušenko su Svobodnaja Pressa, ha definito il serial una panzana glamour, il cui scopo era non tanto di ingigantire Trotskij, quanto di degradare il più possibile Lenin e Stalin ed etichettare tutti i rivoluzionari come vampiri sanguinari. Anche nella propria morte Trotskij ha una parte di primo piano, provocando Jackson-Mercader a ucciderlo. “Trotsky in tutto e dappertutto e la frase che racchiude l’intero film è: La rivoluzione sono io!” nota Konjušenko; “evidentemente, quando Konstantin Ernst (uno dei produttori del film) ricevette da Eltsin la poltrona al Primo canale, accettò la condizione di descrivere la storia sovietica come un’unica sanguinosa tragedia”.
Più in generale, lo scorso 10 novembre, Jurij Gorodnenko (emigrato politico ucraino in Russia) scriveva ancora su Svobodnaja Pressa che quasi tutte le numerose pubblicazioni e trasmissioni dedicate al centenario dell’Ottobre hanno lasciato in ombra il suo significato per lo stato russo. Eppure, nel 1991 la Russia si è dichiarata giuridicamente continuatrice dell’URSS e ne ha occupato il seggio al Consiglio di sicurezza dell’ONU; ne discende che la Russia attuale è in continuità con la RSFSR che, proclamata nel gennaio 1918, risulta nata, di fatto, il 7 novembre 1917, giorno della Rivoluzione e che la Russia attuale, in continuità con quella Repubblica, non ha alcun legame con l’impero zarista. Nonostante ciò, concludeva Gorodnenko, nessun media ufficiale russo ha parlato del 7 novembre 1917 quale data di inizio della statualità russa.
Tirando le somme, lo scorso 7 novembre, Aleksandr Batov, segretario moscovita di Rot Front, rammentava con quante speranze, negli anni ’90, i comunisti celebrassero il 1917: credevano e speravano di festeggiare il centenario di nuovo nel socialismo e che il capitalismo russo non sarebbe arrivato al 2017. Prima ancora, i sovietici erano convinti che il XXI secolo sarebbe stato quello della società comunista mondiale; oggi, si stanno aprendo molte “capsule del tempo”, con messaggi di speranze e auguri formulati sessanta anni fa: in tutti, c’è la certezza che oggi saremmo vissuti nel comunismo, con un mondo senza più guerre, fame, miseria. Leggendo quegli auguri, diceva Batov, si prova vergogna, per il paese e per il popolo: “Non abbiamo custodito il socialismo e siamo precipitati di nuovo nel medioevo e nello zarismo: sono tornati governatori, bojari, gendarmi, popy: e noi siamo lacchè”.
Vladimir Putin si è forse assunto il compito di esaudire i rimpianti del sociologo Čubajs su Costantinopoli e l’invidia dell’America.
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