di Chiara Cruciati
Il processo di Oslo è
morto. Con queste parole, sorprendentemente dure, il presidente
dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, ha ieri potenzialmente
aperto ad una nuova fase della questione palestinese. Al vertice del
Comitato centrale dell’Olp a Ramallah tenuto ieri, e a cui non ha preso
parte Hamas con una decisione annunciata sabato, Abbas ha
attaccato la decisione del presidente Usa Donald Trump di riconoscere
Gerusalemme capitale di Israele, imputato a Tel Aviv la fine
dell’infinito e vuoto processo di pace iniziato nel 1993 e rifiutato il
ruolo di negoziatori degli Stati Uniti.
Le parole di Trump sulla città santa, ha detto Abbas, sono state “lo
schiaffo del secolo” e i due ambasciatori Usa in Israele e all’Onu,
Friedman e Haley, “una disgrazia”. Per questo non intende incontrare
nessuno dei rappresentanti statunitensi.
“Abbiamo detto ‘no a Trump’, ‘non accetteremo il tuo progetto’. L’accordo
del secolo è lo schiaffo del secolo e non lo accetteremo”. Il
riferimento è al piano di pace che il presidente Usa ha detto più volte
di voler attuare, senza dare dettagli precisi ma che, tra i
commentatori, è stato definito come il tentativo di giungere ad
un’intesa regionale: ovvero, la normalizzazione dei rapporti
tra Israele e paesi arabi – nello specifico, il cosiddetto asse sunnita,
guidato dall’Arabia Saudita – che includa al suo interno la questione
palestinese. Nella pratica la marginalizzazione delle richieste del
popolo palestinese a favore di una più ampia intesa mediorientale.
Ai palestinesi, ha aggiunto Abu Mazen, spetterà d’ora in poi
definire una nuova strategia, misure per rispondere all’attacco. Senza
la mediazione Usa: “La nostra posizione è uno Stato palestinese
nei confine del 1967 con Gerusalemme est come capitale e
l’implementazione delle decisioni della comunità internazionale,
compresa la soluzione della questione dei rifugiati – ha spiegato –
Siamo a favore di una lotta nazionale, che è più efficace perché non
esiste nessuno su cui possiamo contare”.
Abu Mazen non ha dato indicazioni sulle mosse da compiere
nell’immediato futuro, mentre fonti interne si sono limitate a dire che
tutte le opzioni sono al momento al vaglio. Il quotidiano israeliano Haaretz,
citando funzionari di Fatah, indica come possibile alternativa
l’ufficiale uscita dagli accordi di Oslo da parte dell’Anp e la fine
della cooperazione alla sicurezza, tra le più odiate forme di relazione
tra autorità palestinesi e israeliane. L’Anp potrebbe anche
ricorrere al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per chiedere il
riconoscimento dello Stato palestinese nei confini del 1967 e la
definizione di Stato sotto occupazione. Un obiettivo difficile da
raggiungere, se non impossibile, visto il sicuro veto Usa.
L’assenza di Hamas al meeting fa riflettere e temere che l’accordo di
unità nazionale raggiunto lo scorso autunno sia già imploso. A Ramallah
mancava anche la Jihad Islamica. Una realtà, quella della
divisione interna, che genera più di un dubbio tra la popolazione
palestinese e il timore che non si assisterà a reali cambiamenti sul
terreno. A mancare, pensano in molti, è la mancanza di una strategia nazionale che Abu Mazen nel suo discorso non ha indicato.
Di certo c’è la consapevolezza dell’accerchiamento: oltre alla
dichiarazione su Gerusalemme, Trump sta per tagliare due terzi dei fondi
all’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa da 70 anni dei rifugiati
palestinesi nella diaspora e nei Territori Occupati, e quelli a favore
dell’Anp, fondamentali a mantenere in piedi la struttura burocratica di
uno Stato in fieri che non si realizza.
Una dichiarazione come quella di Abbas, la morte degli
Accordi di Oslo, dovrebbe condurre naturalmente ad un passo in più,
coraggioso ma probabilmente più efficace: dichiarare morto anche il
frutto di quel processo di pace, la stessa Anp, corpo
amministrativo senza alcun potere politico, economico, di sicurezza che
da 24 anni è considerata dai palestinesi la maschera di Israele e la sua
via d’uscita dalle responsabilità previste dal diritto internazionale.
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